Madrid
Questo articolo è pubblicato sul numero 12 di Vanity Fair in edicola fino al 23 marzo 2021
Ha appena pubblicato, in Spagna, il suo nuovo romanzo. Al collega che lo interroga dice che parlare di sé lo annoia e che, avendo rilasciato centinaia di interviste, forse questa sarà l’ultima. Dice che ha scritto questo romanzo nei mesi del confinamento più duro, e che scriverlo è stato una sorta di rifugio. Poi dice che la vita è fatta in gran parte da ciò che ci è nascosto e che noi stessi nascondiamo. È determinata dalla difficoltà, se non impossibilità, di decifrare gli altri. I loro segreti, le loro tristezze, le allegrie, i rimpianti, le ambizioni, spesso destinate a restare incompiute. Dice che la nostra vita, in fondo, è come un romanzo di spionaggio. E il romanziere è fra tutti quello più impegnato a spiare. Perciò è un peccato, dice, se oggi siamo sommersi da romanzi o film semplicistici, che ci dicono chi giudicare, chi condannare, di chi avere pietà. In ogni caso, non ne resterà traccia. Perché la vita è più complessa e ambigua, ci pone continuamente dilemmi morali, e nessuno può darci un manuale di istruzioni. A lui non piacciono le persone che non sanno dubitare, le persone schematiche, incapaci di cogliere le contraddizioni e le incongruenze nelle posizioni che loro stesse assumono. La vera letteratura è un buon allenamento a non rifiutare le sfumature, le crepe. Ad accettare il fatto che siamo tutti in penombra. Da scrittore, fa i conti con quella penombra. Scrivere romanzi, dice, è come mettere in moto un secondo cervello. Il primo è quello che sta con te tutto il tempo e che spesso finisce per tormentarti. Il secondo è immerso nella storia che racconti, al punto da superare tutte le contrarietà, le interferenze personali, il rumore dell’epoca. È il cervello di un altro, di un doppio. E anche se sulla copertina dei libri c’è scritto Javier Marías, è come se non fosse suo.
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