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Август
2020

«Terroriste, Zerha e le altre», il docufilm sulla lotta delle donne simbolo della causa curda

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Un documentario, diretto da un team di registe italiane, testimonia la repressione del governo turco di Erdoğan, attraverso le testimonianze di tre donne, impegnate ed influenti, tutte incarcerate per aver sostenuto le istanze del popolo curdo. Ecco chi sono e perché è importante la loro storia
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
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«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm
«Terroriste, Zerha e le altre», la première romana del docufilm

In Turchia a girare ci sono arrivati muniti solo di visto turistico, reflex e cavalletto in miniatura per evitare pedinamenti e requisizioni. Faranno ritorno in Italia con le schede di registrazione attaccate addosso e non prima di aver spedito i diversi hard disk con tutto il materiale raccolto: sono Fabio Colazzo, video operatore, e la giornalista Francesca Nava, ideatrice e co-regista del docufilm  «Terroriste, Zerha e le altre». Prodotto dallo Studio Creative Nomads e distribuito in Italia da Fandango, il documentario testimonia la repressione del governo turco di Erdoğan, attraverso le storie di tre donne impegnate ed influenti, tutte incarcerate per aver sostenuto le istanze del popolo curdo: «Tre modi bellissimi di essere donna e attivista – racconta Marica Casalinuovo, altro volto della compartecipata regia insieme a Marella Bombino e Vicky Chinaglia– donne che senza mai conoscersi stavano contemporaneamente lottando sugli stessi fronti con armi diverse: Zehra Doğan con la sua arte tra le bombe, il medico Şebnem Korur Fincanci, con le sue documentazioni, e la scrittrice Asli Erdoğan, voce della coscienza di un popolo».

https://vimeo.com/372075227

«Questo documentario è un piccolo miracolo e ne vado orgogliosa» esordisce Francesca Nava, in occasione della première tenutasi a Roma lo scorso luglio, in collaborazione con Cine Detour, presso lo spazio socio-culturale autogestito Casetta Rossa (Garbatella), omaggiato con un’opera realizzata in loco proprio da lei, Zehra Doğan, donna simbolo della causa curda nel mondo, artista e giornalista, fondatrice dell’agenzia di stampa femminista curda Jinha (oggi Jin News), che ha scontato 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di carcere per un quadro raffigurante le bandiere turche sulle macerie della città di Nusaybin (Turchia sud orientale). Nel docufilm Zehra si racconta attraverso la voce di Kasia Smutniak, presente alla serata: «Questo progetto l’ho accolto sin dalle prime righe della proposta da parte della coproduttrice Marella Bombino», racconta l’attrice. «Ho provato immediata empatia con questo team di donne, quelle da raccontare e quelle che volevano raccontarle. C’è chi le storie le vive sulla propria pelle mettendo a repentaglio la vita, poi c’è chi rischia per divulgarle personalmente, economicamente, facendo viaggiare lettere proibite, come tanti anelli di una catena. Si dice che manchino i punti di riferimento oggigiorno ma non è vero, tutte queste donne lo sono, Zehra a maggior ragione è una donna di questi tempi, con cui è facile identificarsi, non devi per forza vivere le stesse atrocità per farti contagiare da quel coraggio per poi usarlo nella propria quotidianità».

E così, anche fuori prigione, l’arma di resistenza contro le ingiustizie resterà per Zehra l’unione solidale tra donne: «Nelle carceri turche», racconta l’artista alla platea, «le donne vengono picchiate, messe in isolamento, ferite e nemmeno visitate, ci sono anche tanti bambini che non sanno cosa siano gli animali, che non conoscono gli alberi e non sanno cosa voglia dire stare in un parco. E ci sono anziani accusati di terrorismo solo perché il curdo è l’unica lingua che conoscono».
E se il docufilm implicherebbe la conoscenza della causa del popolo curdo, vittima di una feroce repressione etnica, mentre lotta da secoli per la costituzione di uno Stato autonomo, è pur vero che siamo di fronte ad un format che ha la sagacia di non dare nulla per scontato. Il montaggio infatti, a cura di Serena Del Prete, miscela con maestria le riprese clandestine e le immagini shock di videomaker turchi e curdi con supporti grafici e infodata, oltre che con un’accattivante quanto funzionale illustrazione animata che aiuta a deglutire certe verità e riflette il senso dell’arte di Zehra Doğan. In carcere Zehra continua a dipingere in ogni modo possibile, capelli che diventano pennelli e sangue mestruale, spezie, caffè, come colori per dipingere su tele improvvisate: «L’arte di Zehra è arte viva, di denuncia che oltre a raccontare momenti della realtà contemporanea si distingue per essere arte collettiva che va oltre l’autoreferenzialità», spiega Francesca Nava «Perché mette al centro i corpi delle donne sempre in relazione tra loro: corpi dilaniati, avvinghiati, frammentati, come se volesse cogliere l’istante esatto prima della loro ricomposizione. La sua arte ha parlato per lei al mondo intero e questo è stato un aspetto metaforico anche del nostro lavoro, l’averla cercata, l’aver scritto per lei, montare questo documentario senza mai averla avuta di fronte».

Giunta in Turchia infatti, Francesca dovrà rinunciare ad intervistare Zehra, in latitanza prima di essere arrestata definitivamente. La giornalista si dedicherà nel frattempo alle altre protagoniste come Şebnem Korur Fincanci, medico legale, Presidente della Human Rights Foundation in Turchia e coautrice del Protocollo di Istanbul, riferimento internazionale per indagini su torture e pene disumane. La partecipazione ad una campagna in favore della libertà di stampa le era già costata un arresto per propaganda terrorista nel 2016, la condanna a 2 anni e 6 mesi di carcere arriverà nel 2018 per aver firmato una petizione che chiedeva di porre fine al massacro del popolo curdo. Una vendetta, secondo la giurista per aver redatto il Rapporto Cizre, report di una strage di 143 persone civili, tra cui tanti bambini nel sud est turco a maggioranza curda.
Altra storia, stesso esito per Asli Erdoğan, oggi esiliata in Germania con rischio d’ergastolo e l’accusa di “agire per distruggere l’unità nazionale”, la pluripremiata editorialista e attivista turca per i diritti umani, tradotta in 20 lingue, aveva già conosciuto il carcere dopo il fallito colpo di stato in Turchia per alcuni articoli scritti sul giornale pro-curdo Özgür Gündem.

«Abbiamo iniziato a lavorare sulle traduzioni e il montaggio quando Zehra era ancora in carcere, poi ciò che ci ha veramente fatto arrivare a lei è stata la rete umana di contatti, attivisti, associazioni che hanno collaborato in maniera spontanea», racconta Serena Del Prete. «Casualità vuole che un ragazzo curdo che vive a Roma, nell’aiutarci riconosce Zehra, studiavano insieme. Un contatto tira l’altro e riusciamo a farle pervenire una lettera con delle domande in carcere». A distanza di molto tempo verrà recapitata allo Studio Creative Nomads la risposta dell’artista, 22 pagine scritte a mano dal carcere militare di Tarso che cambieranno radicalmente l’assetto dell’intero documentario, facendo da telaio alle altre storie: «Avevamo tra le mani un documento prezioso, intimo, divulgarlo diventava una missione, una spinta emotiva fortissima per tutto il team», dichiara Vicky Chinaglia, co-produttrice e Art Director di Creative Nomads, che ha seguito la parte grafica e artistica con l’illustratore Lorenzo Floriti e il dipartimento Creative Nomads Design. «La lettera era scritta in turco quindi abbiamo pensato di restituirla con disegni animati. Dovevamo ricostruire il personaggio, il suo carattere, le atmosfere anche drammatiche del suo vissuto e senza averla mai conosciuta, la chiave per interpretarla ce l’ha data proprio quel respiro che Zehra trova nell’arte». «Siamo una piccola casa di produzione», dichiara Marella Bombino, socia fondatrice di Creative Nomads insieme a Vicky. «E abbiamo sposato un progetto più grande di noi, l’abbiamo fatto col cuore, senza alcuna certezza di ritorni economici, mosse dalla gravità delle censure che avvengono dietro l’angolo di casa nostra e dall’urgenza di diffondere queste storie. Certo che ci siamo assunte dei rischi, molti collaboratori turchi e curdi non hanno voluto essere citati nei titoli di coda. Le paure ci sono ma è vero che il coraggio è contagioso ed ha prevalso».

Il documentario volge al termine e il retrogusto è un misto di commozione, amarezza e pungolo pungente, perché il sapore della complicità occidentale non tarda a toccare stomaco e coscienza: «Mentre ero ancora in carcere Banksy», racconta Zehra «mi dedica un’opera su un muro di Manhattan, la eco del mio messaggio si fa dirompente e una volta fuori prigione (febbraio 2019) gli Stati Uniti mi invitano ad esporre, ricevo anche un premio al coraggio come giornalista, i media mi offrono interviste, scrivono del governo turco come di un governo assassino. Poi però, il visto dagli USA mi è stato negato due volte perché su di me pesa la condanna da terrorista. Ma perché tutto questo cerimoniale se poi non permettete che entri ufficialmente nei vostri paesi? Stessa cosa in Inghilterra dove ho vissuto sei mesi, affinchè io ottenga questo documento devono ancora fare indagini sul mio conto, sui processi aperti… rispetto all’Europa» continua «bisogna scindere, i popoli europei si battono per i diritti umani e sono molto solidali con il popolo curdo, gli Stati europei invece mostrano ambiguità: nel massacro di Nusaybin le armi erano svizzere, i carrarmati vengono venduti alla Turchia dalla Germania, gli elicotteri impiegati nel bombardamento di Afrin sono di produzione Italiana».

L’arte di Zehra che in Italia ha in serbo ben cinque progetti, continuerà la sua denuncia, così come il docufilm «Terroriste, Zehra e le altre» che tornerà nuovamente a Roma in settembre per poi raggiungere le città di Bologna, Brescia e Milano.

 






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