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Январь
2020

Rachel Cusk e le vite degli altri

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Esce «Onori», il terzo capitolo della trilogia di culto che l'ha resa famosa. L'intervista alla scrittrice lodata dalla critica che ci ha detto: «Volevo trovare un’alternativa alla narrativa soggettiva che tradisce la realtà»

Rachel Cusk ha iniziato a scrivere quando, da bambina, ha dovuto trascorrere un lungo periodo in ospedale: «Essere malata mi ha dato il dono, o la maledizione, di sapere osservare la vita, oltre che di starvi semplicemente immersa. È piuttosto comune tra gli scrittori avere avuto un’esperienza di questo tipo nell’infanzia. E io credo che, una volta guadagnata, quella prospettiva non si perda mai».
Parecchi anni dopo, ormai adulta e trapiantata dal Canada all’Inghilterra, è stata furiosamente attaccata per due memoir, uno nel quale dichiarava che diventare madre ha anche dei risvolti negativi (A Life’s Work: On Becoming a Mother) e uno dove descriveva il proprio divorzio (Aftermath: On Marriage and Separation).

Oggi Cusk è considerata una delle scrittrici più intelligenti e sovversive, e i suoi libri sono in cima alle classifiche più prestigiose. Ciò è avvenuto dopo quella che, per un’artista, può essere definita una rivoluzione copernicana e che, per lei, ha coinciso con una «ritirata»: «Dopo essere stata attaccata per avere cercato di rappresentare la mia esperienza nella forma “aperta” del memoir, mi trovavo in una specie di impasse. Perciò il mio ritirarmi nel romanzo è stato sia un atto di auto-protezione, sia un ritorno alle basi del mio impulso verso la letteratura».

Solo che, una volta ritiratasi dentro il romanzo, pare che lo abbia fatto implodere. Sostanzialmente, la rivoluzione di Rachel consiste in questo: basta con la trama, basta con il narratore di parte (figurarsi con quello onnisciente), basta di conseguenza con il romanzo tradizionale. Quello che ha fatto, per le circa seicento pagine della trilogia che ormai è un culto e l’ha resa famosaResoconto, Transiti e Onori, quest’ultimo appena uscito in Italia sempre per Einaudi – è stato far avvicendare, come in un carnet di ballo o in una sessione di open mic, una serie di personaggi che raccontavano la propria vicenda e poi se ne tornavano dietro le quinte.
A tenere tutto insieme è una voce femminile, Faye, scrittrice, due figli e un divorzio in fieri. Di lei sappiamo poco, non dà mai giudizi. Si limita a fare molte domande e, contrariamente a quanto pensiamo normalmente, agli altri quelle domande non danno fastidio, anzi, era come se stessero aspettando da una vita che qualcuno gliele facesse.

Gli incontri vanno dal vicino di aereo con una complicata situazione famigliare, al parrucchiere che ha abdicato alla propria vita sociale, allo scrittore che non vede l’ora di raccontare pubblicamente di quando il padre lo picchiava, all’operaio albanese che le ristruttura casa e fa da mediatore con i perfidi vicini, a una scrittrice che fa un’interessante recensione di una residenza letteraria di una certa contessa toscana. Il risultato è una trilogia nella quale si cade in stato di trance, che si consuma come una serie tv perché scatena fenomeni di binge-reading, e dove le storie, tutte le storie (leggi, le vite) diventano interessanti e universali.

Rachel, anche lei è una buona ascoltatrice come Faye?
«A interessarmi, più che le storie delle singole persone, è la storia umana come percezione di una realtà oggettiva. Il mio lavoro è quello di registrare ciò che ho intorno e rappresentarlo».

Nei suoi romanzi si avvicendano personaggi di ogni estrazione. Pensa che le classi sociali siano ancora un modo valido per leggere la società?
«Nel Regno Unito sono state la spina dorsale della narrativa sociale, e quindi della letteratura, ma la loro capacità di “lettura” sta cambiando. Le persone hanno trovato molte maniere di aggirare le compartimentalizzazioni, perciò credo che oggi ogni tentativo di approcciarsi alla società attraverso quella lente sia un’attività cinica e sospetta, se non addirittura priva di senso».

Lei ha detto che una delle sue fonti d’ispirazione è stata l’Odissea. Faye incontra spesso i suoi interlocutori mentre viaggia. Che cosa è il viaggio per lei?
«Il tipo di viaggio che descrivo è un interrogarsi sulla nozione di “casa”, e di come questa possa rinforzare alcuni aspetti dell’identità a volte deviandoli e corrodendo la verità della persona. Perciò volevo collocare questi libri in uno spazio di transito, dove le persone possono incontrarsi senza quegli aspetti di “rinforzo”».

Più che un narratore, Faye è un filtro. Il suo è un ruolo passivo simile a quello del lettore?
«Poiché la trilogia cerca di presentare una narrazione senza autore, Faye è più una testimone, il risultato di una riluttanza a volere imporre la propria volontà sul racconto. Ma il fatto di non essere né invisibile né passiva, e quindi di non potersi sottrarre a ciò che ha davanti, è la forza trainante dei libri».

Volere liberare il romanzo dal «sé autoriale» è anche una critica all’egocentrismo di certi autori?
«Volevo trovare un’alternativa alla narrativa soggettiva e a quel patto di mutua illusione tra scrittore e lettore che, nella fiction contemporanea, sento sempre più come un tradimento della realtà. Inoltre, la femminilità mi sembrava avesse bisogno di una struttura morale basata sulla verità. Perciò non è stata tanto un’obiezione nei confronti dell’egotismo degli scrittori, quanto piuttosto il desiderio di volere ritornare alle basi morali della narrazione».

Pensa che il lavoro artistico e letterario delle donne sia ancora sottostimato?
«Si tratta di una questione di autorità che, nella mentalità occidentale, viene ancora connessa in modo istintivo alla mascolinità. A me invece interessa il potere delle autorità non autoritarie, cioè la posizione di chi si trova al di fuori o al di sotto dell’autorità, perché, mi domando, magari lì è possibile trovare una maggiore libertà».

Nella trilogia compaiono molte donne over 50. Come è essere una donna di mezza età?
«A volte mi sembra che ogni fase dell’essere donna racchiuda in sé un segreto un po’ spiacevole che ti viene svelato solo una volta che ci arrivi. Per quanto mi riguarda, ora mi sento meno definita dalla mia femminilità, come se per la prima volta fossi stata lasciata sola, e se per alcune ciò può scatenare un sentimento di invisibilità o di irrilevanza, per me è quasi un sollievo. Un tornare a una non-esistenza che in realtà è una pura-esistenza, cioè la persona che ero prima che mi “capitasse” il fatto di essere donna».

 

Lei sembra molto sicura di sé.
«Non lo sono per niente! Anzi, sono l’opposto. È proprio la mancanza di un sentimento di importanza che mi ha permesso di crearmi il mio particolare lavoro».

Perché decise di raccontare pubblicamente due fatti così privati come la maternità e il divorzio?
«Della mia vita mi interessano solo quegli aspetti che sono universali, che appartengono a una comune identità femminile. Maternità e matrimonio, per le donne, sono spazi affollati e spesso pericolosi, per questo sono diventati centrali nel mio lavoro. E l’unico modo che vedevo per arrivare alla verità era usare il pronome “io”, non come una forma di auto-esposizione, ma per portare un esempio concreto».

Lei ha scritto che «l’impulso a raccontare deriva dal desiderio di evitare il rimorso».
«Raccontare è un modo di fare i conti con il tempo, riempiendolo con qualcosa invece che disperderlo».

Ho letto della sua nuova bellissima casa nel Norfolk, dove vive con suo marito (il terzo, l’artista Siemon Scamell-Katz). Di lei ha detto: «È come se avessi lavorato una vita per avere un posto in cui lavorare».
«È la verità: solo ora, per la prima volta nella mia vita e dopo tutto quello che ho scritto, ho un posto mio dove scrivere. Magari alla fine mi limiterò a sedermi lì, a bermi un caffè o ascoltare la musica!».

Un libro importante nella sua vita.
«L’arcobaleno di D.H. Lawrence, che mi ha mostrato come liberare l’uso della lingua e della forma letteraria».

Nei suoi libri, i traumi che hanno sconvolto le vite dei personaggi sono sempre alle spalle, la paura è ormai passata. Che cosa le fa più paura oggi?
«Non ho ancora capito se oggi, in Gran Bretagna, le cose siano più spaventose o più deprimenti. Mi piacerebbe pensare di essere una persona coraggiosa: al momento il mio coraggio consiste nel resistere alla tentazione di credere che le cose stiano andando sempre peggio e che la situazione umana sia qualitativamente differente da quella che è sempre stata».

La foto di Rachel Cusk è di Siemon Scamell-Katz.






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