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Max Mara, fare cappotto

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Lei, Laura Lusuardi, di Max Mara è fashion coordinator; lui, Alessandro Bianchi, dirige la fabbrica che, per il brand emiliano, produce i capi iconici più venduti e desiderati. Insieme coltivano un’ossessione: quella per la qualità

Questo articolo è uscito sul numero 28-29 di Vanity Fair, in edicola fino al 28 luglio.

L’interminabile onda, tra l’organico e il futuristico, della stazione di Santiago Calatrava, prima. Subito dopo – opere anch’esse dell’archistar spagnolo – le imponenti e sinuose arpe dei tre ponti sull’A1. La solida placidità di Reggio Emilia sa accogliere, prendendoti in contropiede.

«Ma non si aspetti ingressi lussuosi. È tutto molto semplice, qui. È una fabbrica, c’è concretezza. Quest’anno erano previsti dei lavori, ma è andata così… Eppure – mi creda – mi emoziona sempre entrare qui», dice, mentre parcheggia nel cortile – ed è facile crederle – Laura Lusuardi, fashion coordinator di Max Mara, da 50 anni in azienda. «Più di un matrimonio, uno di quelli riusciti», la butto lì. Ma lei si limita a sorridere.

«Qui» è la Manifattura di San Maurizio, dal nome del quartiere all’estremità orientale della città. «Qui» è dove vengono prodotti i cappotti – compreso l’inimitabile eppure imitatissimo 101801 – che hanno fatto la fortuna dell’azienda: «Sono tutti made in Italy, made in Reggio Emilia, made in San Maurizio». Decine di migliaia all’anno ne escono da questa fabbrica forse anonima fuori, ma virtuosa dentro, nella quale lavorano 250 persone, tra sarte, operaie, ma anche ingegneri che progettano e si occupano della manutenzione dei sofisticati macchinari. Da due anni ne è amministratore unico Alessandro Bianchi. Che, però, lavora per il gruppo da più di 35 anni.

Un’immagine della Manifattura di San Maurizio.

«Ho solo una critica da fargli: indossa sempre il grembiule bianco, ma non oggi. Oggi c’è quest’intervista…». Che, considerato il proverbiale perfezionismo di Lusuardi, suona come la migliore tra le introduzioni possibili.

Interlocutore, supporto, complice: chi è Alessandro per lei?
«Uno che gestisce molto bene questa fabbrica, con grandissima passione. E che porta avanti i nostri valori».

Quali sono?
La risposta è immediata e all’unisono: «La qualità, prima di tutto». Pausa. Aggiunge Bianchi: «L’importanza della formazione del personale, il trasferimento del nostro saper fare alle nuove generazioni. E la cura dei dettagli».

Una cura che – scoprirò nel corso della visita ai vari reparti – ha nel proprio sapore inebriante il retrogusto persistente dell’ossessione. Ogni cappotto – per esempio – nasce da un’unica pezza di tessuto, che sia di cammello, angora o cashmere, per garantirne l’omogeneità di colore, lucentezza, morbidezza della mano. Così, ogni singola componente del capo viene contrassegnata da un codice che riporta a quella specifica pezza: grazie a esso, dopo i 100 e più passaggi richiesti dalla lavorazione di un cappotto, le diverse parti della pezza si ricongiungono, di nuovo, nel capo finito. Cinture comprese. Anche se fai fatica a pensare che quelle centinaia di cinture color cammello che vedi penzolare tutte assieme siano davvero una diversa dall’altra, e che ognuna di esse non possa che andare proprio con il «suo» cappotto. «Forse non tutti colgono queste sottigliezze. Ma noi sappiamo che è così, e questo ci basta».

Linda Evangelista indossa l’inconfondibile cappotto 101801 in un’immagine di Steven Meisel per l’AI 1997/98.

E chi è per lei, invece, la signora Lusuardi?
«Quasi una delle lettere che compongono il brand Max Mara. Una donna che ci mette ancora l’entusiasmo del primo giorno. Anche se io non c’ero, so che è così».

Approccio artigianale e grandi numeri: su qualcosa bisognerà pur transigere.
A.B. «Chi lavora qui conosce gli standard richiesti dal brand. La qualità nasce dal basso, insomma, perché ogni operaio sa come vanno fatte le cose, e le fa proprio così. Anche nei gesti apparentemente più banali, come posare i pezzi di tessuto nei passaggi tra un’operazione e l’altra, con rispetto. Lì sta la differenza: se il tessuto non si sgualcisce, non deve essere stirato. E meno viene stressato, più conserva la propria bellezza».

Il cappotto non è un capo come gli altri.
L.L. «Deve durare di più. Copre tutto, deve andare con tutto e su tutto. Deve saper conferire stile, ma anche identità. Quelli iconici superano la prova del tempo».

Lo sketch dell’iconico modello 101801, creato da Anne-Marie
Beretta nel 1981.

Quando al supermercato incrociate una donna con un vostro cappotto, cosa provate?
L.L. «È la soddisfazione più grande: facciamo un prodotto reale, per vestire le donne reali, nella vita di tutti i giorni».
A.B. «Credo sia una soddisfazione anche per tutte le donne che lavorano qui».

La fiducia: quanta ne avete reciprocamente?
L.L. «Più del 100%. So che quello che esce da qui è perfetto».
A.B. «Quando si condivide la medesima filosofia, la fiducia totale è la conseguenza inevitabile».

Perché gli italiani sono sempre i più bravi nel settore?
L.L. «Abbiamo una creatività unica. Tu che pensi?».
A.B. «All’80% è quello. Il restante 20% arriva dalla nostra storia, dalla tradizione: siamo quelli con un know how più forte e prezioso, non solo nel fare i vestiti, ma in tutta la filiera: dai tessuti al filo per cucire, ai bottoni…».
L.L. «Se i grandi gruppi francesi hanno comprato tutte le aziende italiane per produrre qui, ci sarà un motivo».

Quanto la vostra vita combacia col vostro lavoro?
L.L. «Io sono stata molto fortunata: ho sposato un uomo che mi ha lasciato fare quello che volevo e ho fatto due figli che non mi hanno mai tolto niente…».
A.B. «Non posso dire altrettanto: sono single, mai sposato, mai avuto figli. Ma non è stata colpa – né merito – del lavoro».

In cosa è cambiata, negli anni, la vostra attitudine nei confronti del lavoro?
L.L. «È cambiata?! Mi sento solo ancora più esigente».
A.B. «Io mi riconosco una mentalità sempre più aperta, soprattutto nella risoluzione dei problemi. C’è sempre una risposta a tutto. Basta non incancrenirsi. Non è più l’epoca nella quale si possa dire: “Sono vent’anni che lo facciamo così, e continuiamo a farlo così”. Se lo pensi, sei morto vent’anni fa».
L.L. «Ma bravo Bianchi, è giusto. Tutto è fattibile: basta l’elasticità, basta volerlo».

Quale qualità riconoscete nell’altro?
A.B. «Laura è inarrestabile. Lo dico con invidia, forse».
L.L. «Forse è vero. L’altro giorno ho scritto: Max Mara davanti a tutto. Non so perché, e non so nemmeno se sia giusto nei confronti della mia famiglia. Però è così. La dote di Alessandro? Ha saputo crescere. Sa, non è che ci parliamo poi tutti i giorni, e questa era la prima volta che facevo il giro della fabbrica con lui. Ha detto delle cose che mi ha fatto molto piacere sentire. Potevo immaginarle, ma sentirle… Be’, sentirle è diverso».

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