Dario Brunori, la luce oltre la siepe
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 26/27 di Vanity Fair in edicola dal 1° luglio
Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare
Solamente un grande vuoto che a guardarlo
ti fa male
(Canzone contro la paura, Dario Brunori)
Più della paura mi spaventa l’incertezza. L’impossibilità di pescare nel mare magnum delle informazioni che ci arrivano quotidianamente non dico una verità, ma persino una pallida forma di autorevolezza. Dopo mesi di lutti e di stasi dovremmo scuoterci, agire e ritornare alla normalità e invece siamo inondati da input contraddittori che rendono le decisioni fragili: “Ci stiamo muovendo bene? Stiamo azzardando più del lecito? Ci stiamo, al contrario, limitando in maniera stupida?”». Dario Brunori vede nel presente «l’apice del postmodernismo occidentale» e «nella paura dell’aggregazione, un processo già in atto da tempo che con la pandemia ha fatto notevoli passi in avanti».
Anni fa, a teatro, consigliava ironicamente di restare a casa per sempre: «Dicevo: “A che serve uscire quando si può fare tutto dal proprio appartamento con una app?”», oggi non si arrende all’idea di un concerto da tinello: «È un surrogato» e mentre il mondo della musica cerca soluzioni istituzionali per uscire dall’immobilismo e aiutare le maestranze che si sono viste cancellare un anno di stipendi, introiti ed esibizioni dal vivo, ha scelto di compiere un primo gesto concreto devolvendo i guadagni del merchandising del suo ultimo disco ai lavoratori che lo accompagnano da anni. «Le consiglio le tazze, sono bellissime. Ci stiamo lanciando nei casalinghi. Siamo partiti da poco, ma a lungo andare pensiamo di conquistare una buona quota di mercato».
Ridere del pianto è la formula che Brunori applica a ogni aspetto della vita. Nella battaglia comune volta a ottenere aiuti per un settore «che è stato spesso frammentato e deve imparare a parlare con una sola voce», lo si è visto sui social con un cartello in mano. C’era scritto #iolavoroconlamusica e al di là del dato estetico – «Gli amici mi hanno detto che in foto sembravo Charles Manson» – la campagna, dice, «nasceva da un’esigenza semplicissima: far capire che dietro ai cantanti e alle luci di un palco lavora un sacco di gente invisibile che, essendo costretta a stare ferma, soffre. Non voleva essere la lamentela un po’ velleitaria dei musicisti viziati che battono i piedi e chiedono di suonare a ogni costo, ma il tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tantissime famiglie che, senza diritto o quasi, trottano dietro le quinte e proprio come quelle degli agricoltori, dei commercianti o dei metalmeccanici non sanno più come pagare affitti e bollette».
C’è stata un’epoca, «più o meno dieci anni fa», in cui la valigia di Dario Brunori somigliava a quella del cappellaio matto. Partecipava a qualche incerto festival della canzone non diversamente dal personaggio inventato da Lewis Carroll e ingannava il tempo interpretando più di una mansione come quando da ragazzino, mentre gli altri si baciavano in spiaggia, poggiava il culo sull’arenile umido e suonava – per gli altri – la chitarra fino allo spegnimento del falò.
«Ho dei ricordi nitidi di quando, nei primi concerti, recitavo contemporaneamente nei panni di cinque o sei figure professionali. Mi capitava di percorrere l’Italia con un furgone di risulta, brutto, sporco e a forte rischio igienico, di prendere traghetti, di arrivare a Palermo – accadde ad esempio in occasione del tour legato al primo album – e di montare l’impianto, ma sarebbe più onesto chiamarlo impiantino, il mixer, di microfonarmi, di pensare al booking, al soundcheck e a tutto il resto». Andando avanti, grazie al lavoro della sua squadra, Brunori si è liberato dal polimorfismo. «Prima cominciai a potermi permettere il fonico, poi il resto e molte delle persone con cui ho iniziato a lavorare sono diventate parte della mia famiglia, del mio circo itinerante, della mia vita».
Nelle pause, tra il camerino e lo specchio, Brunori ha stretto amicizie, imparato molto, restituito qualcosa di sé. «Il mio rapporto con i tecnici è stato sempre molto ridanciano e confidenziale: mi sono sempre sentito vicino al tecnico di turno non perché abbia smanie proletarie, ma perché agli inizi avevo uno studio, mi è capitato di seguire dei live da fonico o di occuparmi di cablature, e so la dedizione massacrante che comporta quel mestiere. Scambiarsi gentilezze intorno a un palco è una consolazione che aiuta ad affrontare meglio la fatica e a ridere. Alle persone con cui traffico da anni piace ridere. Mi hanno insegnato a non prendermi troppo sul serio e hanno accudito il mio lato artistico, quello del bambino che non vuole smettere di giocare perché cantare, per me, più che un mestiere, ha rappresentato soprattutto un gioco».
Il tour di Cip! sarebbe dovuto partire a marzo. Brunori è stato il primo a fermarsi e forse sarà il primo a ripartire. Nell’attesa, con altri artisti, ragiona su una riforma generale del settore «per iniziare a pretendere interventi strutturali e ribadire che la musica non è solo cultura, ma ha anche un valore economico e genera fiumi di denaro esattamente come altri comparti produttivi». Scrivere manifesti, presentare proposte e riflettere sui numeri, sostiene, è indispensabile: «Perché altrimenti si pensa sempre che siamo il carrozzone della cultura, i simpatici guitti, gli zuzzurelloni con il cappello in mano che vanno a chiedere elemosine e prebende». La settimana della musica, a Verona, servirà anche a questo. Ad accendere un faro su un settore che intona canzoni ma al quale qualche volta manca la voce. «Un faro o una luce. È quella di cui avremmo bisogno e che io mi ostino a vedere osservando la crepa che si è creata in questi mesi in ognuno di noi». Durante il lockdown Brunori aveva detto che nella sofferenza si nascondeva la possibilità di diventare migliori: «Non volevo essere naïf, ma ipotizzare che sarebbe stato bello riuscire a trasformare lo choc in energia. Quando morì mio padre, nel turbamento, trovai la forza per farlo a livello individuale. Mi auguro che dopo il lutto generale accada collettivamente. Ci serve una spinta, anche interiore».
IL BELLO DEL LIVE
Dario Brunori, 42 anni. In arte Brunori Sas. Da quando, nel 2009, ha iniziato la sua carriera di cantante e autore, ha fatto molte tournée in teatri e palazzetti.
(Foto: LEANDRO EMEDE)
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