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Сентябрь
2019

Diego Abatantuono: «Inseguo ancora la felicità»

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Mentre torna a recitare per il suo amico Gabriele Salvatores, in questa intervista Diego Abatantuono riflette sul senso di una parabola artistica lunga e piena di soddisfazioni: «La mia gioia è quando intorno a me si divertono tutti»
Diego Abatantuono
Diego Abatantuono
Diego Abatantuono
Diego Abatantuono
Diego Abatantuono
Diego Abatantuono

Questa intervista è tratta dal numero 39 di Vanity Fair in edicola fino a martedì 1 ottobre.

«La felicità non è un diritto: è un colpo di culo». La battuta la ripete, ma non la condivide. Diego Abatantuono – già passato a un nuovo set, diretto questa estate da Fausto Brizzi fra Ladispoli e Praga – è uno dei protagonisti di Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores, che uscirà al cinema il 24 ottobre. Nel film, l’attore ha fatto famiglia con Valeria Golino, madre di un ragazzo Asperger avuto da Claudio Santamaria: il suo personaggio, Mario, è un uomo solido e giocherellone che comunica con il ragazzo indossando nasi da clown e fa da roccia alle insicurezze della donna. Quanto a felicità, però… «Non è così semplice».

Non basta il «colpo di culo»?
«Secondo me, no. La felicità va cercata, capita. Sto leggendo un libro di Seneca che parla proprio di questo».
Vuol dire che, fra una battuta e l’altra della commedia di Brizzi, lei legge Seneca?
«Sì, e quello che so è che ci sono tanti concetti di felicità: quello dell’infanzia, del sabato, dei preliminari…».
Qual è il suo concetto?
«Io sono un ghiottone in tutto, un esagerato. Uno che pensa sempre al dopo, a come mantenere ciò che ha raggiunto. Felicità invece è essere contento anche mentre fai le cose, mentre lavori, prendendo tutto con la giusta leggerezza».
A 64 anni e oltre 70 film interpretati, riesce ad affrontare questo mestiere con leggerezza?
«Il mio piacere dipende dal fatto che si divertano anche tutti gli altri. La cupezza non fa diventare più bello un film. Ci sono set di paura, su cui si sente bisbigliare: “È arrivato il regista, silenzio assoluto”, “C’è quell’attore che si sta concentrando, che non voli una mosca!”. Set dove si è convinti che il lavoro che si sta facendo rivoluzionerà la storia».
Immagino non siano i suoi preferiti.
«Nessun film è capace di cambiare il mondo. Soprattutto, per quanto tu ti impegni, non sai mai davvero quale sarà il risultato, se un grande successo, un titolo da Oscar, una schifezza… Insomma, il cinema è meglio farlo con allegria che con la convinzione di essere superiori: non siamo mica cardiochirurghi che salvano vite».
Torniamo alla sua idea di felicità.
«Alla fine, ne ho un concetto ovattato. Simulo la serenità, ma avendo figli e nipotine mi preoccupo per il loro futuro. Sono anni che parlo di ecologia, di riscaldamento del pianeta, e oggi il problema è diventato davvero drammatico. Eppure, è come se chi ci governa non avesse famiglia: se sei genitore, la tua felicità può consistere nel possedere cose che poi non riuscirai a far godere a chi viene dopo di te?».
In Tutto il mio folle amore lei ha una paternità vicaria. Nella realtà ha tre figli, Maria, Matteo e Marco.
«Abbiamo nomi tutti con la “M”. Anche le due nipotine, Matilde e Maria Carlotta. Non sa che rimpianto ho di essere adesso sul set anziché con loro».
Che tipo di nonno è?
«Lo stesso che ero come papà. Con un po’ meno di agilità. Una volta con i figli giocavamo a pallone tutti insieme, adesso sto a guardare. Dobbiamo scegliere i giochi giusti, evitando magari la macchinina a pedali che mi costringe a correre dietro».
Nella sua vita quanto contano invece i soldi?
«La beneficenza maggiore io l’ho fatta con gli amici, mantenendoli. Quello è stato il mio godimento: condividere con loro e con i miei numerosissimi parenti tutto ciò che mi succedeva e le fortune. Senza una condivisione, non c’è gioia. Io comunque vengo da una famiglia che lavorava, faceva fatica: in una generazione la situazione economica non si ribalta. Le posso raccontare una storiella che mi ripetevano da piccolo?».
Volentieri.
«C’è una coppia di poveri anziani. Arriva una specie di genio e spiega che esaudirà tre loro desideri. L’uomo dice: “Vorrei una salsiccia”. La salsiccia arriva. La moglie protesta: “Ma si può sprecare così un desiderio? Che ti caschi una mano”. Zac, quella casca. Così, il terzo desiderio è riavere la mano. E nel frattempo la salsiccia è bruciata».
Istruttivo. Il suo primo desiderio invece qual è?
«Pagare le tasse».
Non ci credo.
«Sì, le pago e lo faccio con orgoglio. Solo che quando il genio dei desideri svanisce, da me arriva l’esattore della tassa sulla salsiccia».
Quindi, non è un gran desiderio. Quelli più concreti?
«Avere una pensione adeguata e stare con le mie nipotine. L’ideale sarebbe lavorare un po’ meno e fare le cose che mi piacciono di più, assieme ai miei amici».
Vorrebbe smettere di lavorare?
«Il giorno in cui dirò che lascio le scene, sarò felice. Ma non posso, e quindi continuo perché in casa sono tutti giovani, e io devo guadagnare».
E non le mancano le occasioni, mentre le colleghe sue coetanee dicono che con l’età non trovano più ruoli.
«Non è vero. Ce ne sono meno, ma ci sono, la televisione è piena di serie con anziani, c’è posto per tutti. Io poi amo la diversificazione. Per esempio, quando in un negozio mi dicono: “Prenda questo capo, ne abbiamo venduti tantissimi”, io non lo compro. Non mi fido mai della quantità. Non a caso non seguo Facebook».
Non ama i social?
«Ho giusto WhatsApp, con le foto delle mie nipotine. D’altra parte, la parola che mi fa più orrore al mondo è “virale”: che cazzo vuol dire, sembra una malattia. Bisogna guardarsi dalle cose che fanno tutti. Il mondo è andato avanti perché qualcuno diverso dagli altri, magari non accettato, è riuscito a far passare un concetto: i ragazzi con i capelli lunghi parlavano di pace e non di guerra, quelli che si sposano fra uomini o fra donne… Nella diversità c’è qualcosa di interessante».
Anche da ragazzo la pensava così, o era più insicuro?
«Da giovani si vuole essere accettati, e io facevo un po’ fatica. Ma, cresciuto al Derby (storico cabaret milanese, ndr), vedevo Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Dario Fo, Beppe Viola e li amavo. Mentre fin da piccolo non mi piacevano per niente quelli che per far ridere raccontavano barzellette. Soprattutto quelle lunghe: c’è uno che… il giorno dopo… il terzo giorno… Ma come si fa? Il mio amico Il Bistecca le storielle che gli altri raccontavano in venti minuti le condensava in sei secondi, così erano belle».
Gli amici sono gli stessi di quand’era ragazzo?
«Sì, sono quelli di 30-40 anni fa. Questa è la solidità della vita. Fanno cose diverse. Prenda il mio amico Fabio Cappellotto, un eroe che da sempre si alza alle cinque per scaricare casse da un camion: lui è uno che fa fatica, non io. Io sono un pagliaccio della vita».
Mai capitato che un amico la tradisse?
«Sì, ed è una delle cose più violente, spesso legata a ragioni economiche. Io ho avuto un tracollo dopo i primi anni di carriera, fra l’80 e l’82 ho fatto una dozzina di film, ma ho avuto una pessima gestione e ci sono state persone che mi hanno fatto danni anche economici. Però questo mi ha poi permesso di conoscere il mio attuale socio e fratello, Maurizio Totti».
E dopo è arrivato Gabriele Salvatores: con lui ha mai avuto uno scontro vero?
«Mai, neanche una volta. Abbiamo quasi una parentela, lui ha vissuto molti anni con mia figlia (il regista è compagno di Rita Rabassini, ex moglie di Abatantuono, ndr). Infatti, le mie nipotine hanno sei nonni, includendo nonno Gabriele e nonna Rita».
Lavorate bene insieme?
«C’è un’alchimia fra noi. Abbiamo una grande diversità caratteriale, che sul set diventa fiducia: io gli faccio proposte compatibili con il suo gusto e spesso lui accetta. Altri registi magari fanno più fatica a spiegarmi ciò che vogliono. Ma quello che auguro a questo film è soprattutto che ci permetta di farne un altro, io e Gabriele».
Come lo immagina?
«In Marocco, partendo con la macchina e un bel canovaccio di storia, verso un nuovo viaggio. Ma sempre con le stesse facce. Amo ritrovarmi con gli attori con cui ho lavorato».
Sono passati esattamente 30 anni dal vostro Marrakech Express. Com’è cambiato il viaggio?
«Cambia tutto. A 30 anni stavo lottando. Adesso più che lotta c’è uno spirito di osservazione».
Quanto a cambiamenti, anche il suo fisico è molto diverso da allora.
«Io adesso sono opulento, una volta – da magro – ero anche abbastanza attraente. D’altra parte, il vizio del cibo e della convivialità è uno di quelli che puoi far durare di più nel tempo».






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