Thailandia, Bielorussia, Afghanistan: le donne protestano per i loro diritti
Il simbolo della protesta è la vecchia bandiera bielorussa. È bianca e rossa e la indossano le donne che protestano contro il presidente Lukashenko, da 26 anni padrone del paese, rieletto il 9 agosto, in una votazione non riconosciuta dall’Unione Europea a causa dei presunti brogli. Sono loro in prima fila nelle manifestazioni a Minsk come nel resto del mondo.
Tra 5 e 10mila donne in bianco sono scese in piazza sabato 29 agosto, nonostante le intimidazioni e gli arresti e i blocchi delle strade e della metropolitana. Un fiore in mano, cantando una canzone tradizionale e la bandiera storica in mano protestano contro il risultato di un voto che non riconoscono. Lukashenko avrebbe ottenuto oltre l’80% alle presidenziali, poco più del 10 sarebbe andato alla candidata dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaja, costretta a fuggire in Lituania.
Sono diritti di libertà politica e di voto quelli per cui lottano le donne bielorusse. Sono politici, ma in altro senso quelli delle donne afghane che hanno ottenuto una vittoria, simbolica, ma significativa. Il comitato legale del governo afghano ha annunciato che è stata approvata una proposta di modifica della legge sul censimento per includere il nome della madre sulla carta d’identità nazionale.
Finora il nome della madre non era mai inserito nei documenti, come in altri paesi musulmani è disdicevole nominare le donne. Dal punto di vista giuridico questo però comporta che la madre non ha diritti, non comparendo mai sui documenti. Ora invece averlo stampato porta almeno la possibilità che le donne recuperino autorità per agire in favore dei figli senza che ci debba essere un uomo per iscriverli a scuola o spostarsi con loro.
In Thailandia da alcune settimane le donne, soprattutto studentesse, protestano contro il governo del generale Prayuth Chan-o-cha e contro la monarchia. La protesta è generalizzata, ma ci sono precise richieste femminili per l’autodeterminazione delle donne e i loro diritti, primo quello all’interruzione di gravidanza. La legge del 1957 permette l’aborto solo per salvaguardare la salute della donna o per una gravidanza seguita a violenza sessuale. Sono migliaia quelli clandestini.