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Октябрь
2019

Scalare per rinascere, lottare per vivere: la storia di Sara Grippo

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Capelli riccissimi, sorriso contagioso, la climber piemontese si racconta dopo una lunga malattia e un trapianto di rene in una storia di vertigine, coraggio e volontà. Sara Grippo sarà tra i protagonisti dei Sustainable Outdoor Days di Milano, in programma dal 17 al 20 ottobre
Scalare per rinascere, lottare per vivere: la storia di Sara Grippo
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Scalare per rinascere, lottare per vivere: la storia di Sara Grippo
Scalare per rinascere, lottare per vivere: la storia di Sara Grippo

Quando arrampica, Sara sorride. È il suo momento di libertà, lo è sempre stato, una sorta di pausa dal mondo, dove il contatto con la natura diventa pace e distacco da tutto. Quando arrampica, Sara porta addosso una storia che solo grazie al gesto tecnico si fa più leggera, ma che in realtà è zavorra. Lo è stato per molto tempo: un peso che ha provato a trascinarla in basso mentre lei voleva volare sulla roccia. Ma oggi quella stessa storia si è trasformata in esempio di resistenza, tenacia, lotta e coraggio.

La protagonista del nostro racconto si chiama Sara Grippo, ha 35 anni e sarà uno degli ospiti eccellenti dell’evento centrale della Milano Montagna Week, ovvero i Sustainable Outdoor Days, quattro giorni dedicati al legame ormai inscindibile tra sostenibilità e outdoor che andranno in scena al BASE dal 17 al 20 ottobre. Per l’occasione, la climber di Paesana, in Valle Po racconterà la sua vita, quella che all’età di 23 anni è stata sconvolta dalla diagnosi di una malattia ai reni, la Glomerulonefrite autoimmune. Una malattia infiammatoria che colpisce i glomeruli renali con il conseguente blocco della funzione di questi organi così importanti per l’organismo.

«Lo dico senza vergogna: parlare a Milano Montagna non sarà facile per me», dice Sara. «Ho sempre un po’ di difficoltà a mettermi davanti agli altri perché sono timida in più raccontare la mia storia mi emoziona e mi fa soffrire insieme, fatico tanto. Ma dopo aver detto di no l’anno scorso, sento che è arrivato il momento di fare quello che posso perché altri come me trovino la forza, lo faccio perché spero possa servire e possa sensibilizzare la gente».

Partiamo dal principio. Chi è Sara?
«Definirmi con un’identità per me è difficile, non so ancora bene chi sono. Le esperienze che la vita mi ha fatto vivere mi hanno cambiata. Sara era una bambina molto spensierata, attiva. Un terremoto, come la chiamava sua madre. Aveva sempre voglia di giocare e di scoprire. A 17 anni ha cominciato a maturare l’amore per la montagna. Faceva tanto alpinismo con la tavola da snowboard e la prima volta in parete è arrivata che aveva 18 anni, convinta dallo zio di un amico che era chiodatore».

Cosa ricorda di quella sua prima volta in parete?
«Mi ricordo che mi era piaciuto tantissimo, ma allo stesso tempo avevo paura dell’altezza. Era un mix tra eccitazione e brivido, mitigato dalla bellezza di stare in mezzo alla natura insieme ai miei amici. In un certo senso, arrampicare è un modo per metterti di fronte alle tue paure e affrontarle».

Poi cosa è cambiato?
«La velocità e il tempo sono cambiati. Hanno scoperto la mia malattia che avevo 23 anni, ci sono voluti diversi mesi. Ho passato 60 giorni ininterrotti in ospedale dove il tempo si è dilatato, rallentato, appesantito. Continuavo a gonfiarmi e non riuscivano a trovare la causa. Mi gonfiavo per l’acqua che trattenevo i reni avevano smesso di lavorare e quella stessa acqua è finita nel pericardio e nella pleura e non riuscivo nemmeno a respirare. Da quel momento è iniziato un calvario».

Com’era la sua vita allora?
«Ho vissuto i cinque anni successivi prendendo un sacco di medicine al giorno per tenere a bada la malattia. Ma essendo autoimmune, lei è riesplosa. Avevo 28 anni, era il 2012. Lo ricordo bene perché da lì è cominciata la mia relazione con la dialisi. Tre giorni a settimana attaccata alla macchina che prendeva il mio sangue, lo puliva e lo rimetteva in circolo. Era il mio rene esterno e non potevo permettermi di saltare nemmeno una seduta. Non potevo bere e per sei anni non ho fatto la pipì perché l’acqua mi rimaneva addosso».

In quel periodo così cupo però è arrivato l’amore…
«Stefano (Ghisolfi, dalla stagione 2010, il miglior atleta italiano nella Coppa del mondo lead di arrampicata n.d.r), l’ho conosciuto a una gara di arrampicata. Nonostante la malattia ho sempre scalato, non ho mai smesso. Per me era un modo per stare bene, scalavo perché mi faceva sentire normale. Facevo anche delle garette amatoriali e a quella di Torino lui era “tracciatore”, ci siamo conosciuti lì. Ed è cominciato tutto, è arrivato un angelo nella mia vita».

Sapeva già tutto di lei?
«Nell’ambiente molti conoscevano la mia storia, non ho mai voluto tenerla nascosta, nemmeno la paura di dire “sono malata”. Io sono questa e se qualcuno mi vuole, mi accetta per come sono. Nel braccio ho una la fistola, mi hanno dovuto unire una vena con un’arteria e il mio braccio sinistro ha le vene a fior di pelle. All’inizio mi faceva un po’ senso, lo nascondevo e lo coprivo. Oggi invece me ne frego. Stefano sapeva quale fosse la mia vita e l’ha accettata da subito, anzi ha fatto di più. Stavamo già insieme da anni e abbiamo deciso di fare un corso di un mese per imparare  a usare una macchinetta che ti permette di fare una dialisi a domicilio. Ha imparato a infilarmi gli aghi, a farla funzionare. In questo modo abbiamo potuto spostarci, viaggiare con il furgone verso la Spagna, vedere posti che non pensavo avrei mai potuto visitare. Eravamo in tre nei nostri spostamenti. Io, Stefano e I-Rene, così abbiamo ribattezzato la macchina per la dialisi».

Non le hanno mai detto che ci fosse un altro modo per curare la malattia?
«Sì certo, avevo bisogno di un trapianto di rene e sono stata in lista per sei anni. Sei anni ad aspettare La telefonata, giorno e notte, estate e inverno. Ma ho un gruppo sanguigno raro e non sono facilmente compatibile. Poi la svolta, il 2 febbraio 2018 è successo. Sono corsa in ospedale, sapevo che c’era un rene per me e non posso nemmeno oggi spiegare quello che ho provato in quel momento. Un misto di emozione, incredulità, gratitudine».

Oggi come vive?
«Ho una vita normale, non devo più fare dialisi. Ora è come se stessi bene, però devo prendere molto medicine per evitare il rigetto dell’organo, perché un trapianto può durare un mese, dieci anni o trent’anni. Ma ho capito che siamo davvero delle macchine, nessuno si rende conto di quante funzionalità abbiano i nostri organi e la donazione è l’atto d’amore più altruista che possa esistere. Se sono qui e sto bene è grazie a chi ha deciso di fare questa azione, ed è una cosa meravigliosa. I donatori sono degli angeli perché regalano vita e sarò per sempre grata alla persona che, nonostante non ci sia più, sento che vive dentro di me».

La prima cosa che ha fatto dopo il trapianto?
«Ho bevuto una litrata d’acqua, la sensazione mi faceva impazzire. E non potete immaginare l’emozione di fare pipì!».

Cosa vede nel suo futuro?
«È difficile parlare di futuro, mi piace vivere il presente come un dono esattamente come insegna lo yoga che pratico da molto tempo e che è stato davvero fondamentale nella mia vita. L’unico progetto reale è quello di stare bene per il maggior tempo possibile. Ho i miei progetti di arrampicata qui ad Arco di Trento dove vivo con Stefano e li provo con determinazione, passione e divertimento. E poi viaggiare. Prima di ammalarmi, il mio sogno era viaggiare, poi ho smesso addirittura di pensarci, sapevo di non poterci andare e soffocavo subito il pensiero sul nascere. Ora invece, stando attenta, posso permettermi di sognarmi in posti lontani, come il Giappone dove andrò con Stefano a fine Ottobre a vederlo gareggiare in una tappa di Coppa del Mondo».

 

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