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Pochi dati frammentati e ricerche addomesticate: così il sistema culturale italiano resta opaco

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Nelle ultime settimane di dicembre sono state presentate alcune ricerche sulla struttura del sistema culturale, sia dalla lobby degli imprenditori dello spettacolo dal vivo Agis (teatro, musica, danza, circo, esercizio cinematografico) per celebrare i suoi 80 anni, sia dallo stesso Ministero della Cultura, che da tre anni ha riavviato una sua lontana pubblicazione annuale denominata Minicifre della cultura.

Entrambi gli studi confermano la patologia forse più grave del sistema culturale italiano, ignorata dai più e da me denunciata da decenni: in Italia, non esiste ancora una strumentazione cognitiva adeguata al buon governo delle politiche culturali e delle economie mediali. Quale che sia la cromia politica del ministro in carica, egli non dispone di una adeguata cassetta degli attrezzi e quindi finisce inevitabilmente per governare sulla base di intuizioni approssimative, se non influenzato dalla pressione della lobby di turno.

Il problema riguarda ovviamente la quantificazione del budget dello Stato a favore della cultura, che resta da anni tra i più bassi di tutta l’Europa, ma anche il modo nel quale le risorse pubbliche sono allocate, con una prevalente logica conservativa, senza una minima strategia organica e sistemica.

La Legge Finanziaria 2026 conferma questo andamento conservativo e inerziale: nessuno si è posto domande serie sul “quantum” dell’intervento pubblico a favore del cinema o dell’editoria o di altre industrie culturali e creative, e su come queste risorse vengano spese (efficienza ed efficacia vo’ cercando…). Il Ministro Alessandro Giuli (Fratelli d’Italia) è riuscito a ridurre il taglio del Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo dai 700 milioni di euro del 2025 ai 610 del 2026, il Sottosegretario all’Informazione e Editoria Alberto Barachini (Forza Italia) è riuscito ad evitare che i contributi pubblici alle emittenti radio-televisive locali venissero ridotti di 30 milioni e che il sostegno pubblico alla Rai scendesse anch’esso di 30 milioni di euro, ridotti a 10 milioni soltanto e per l’anno 2026…

Operazioni chirurgiche ben mirate?! No, semplicemente tagli con l’accetta, in qualche modo ridotti a seguito degli interventi delle lobby di settore (Anica, Apa, AerAnti-Corallo, Crtv)… Un balletto surreale di opachi emendamenti e sub-emendamenti, in un penoso mercato delle vacche completamente carente di conoscenza e coscienza.

In questo scenario, va denunciato che in Italia continua a prevalere, nel settore delle industrie culturali e creative, un radicale deficit di conoscenza, che impedisce il buon governo: la quasi totalità degli studi si caratterizza per mancanza di spirito critico e anche i pochi dati disponibili vengono analizzati in modo asettico, da finire per alimentare la conservazione dell’esistente.

In materia di studi, lo Stato è infatti quasi assente e spesso “appalta” le ricerche ad imprese di consulenza che dimostrano la volontà di non disturbare in modo alcuno il manovratore: il caso delle “Minicifre” del Ministero della Cultura è emblematico. Utilizzando fonti come l’Istat e le Camere di Commercio vengono prodotti dati e tabelle, numerologie addomesticate che poco o nulla rivelano del vero stato di salute del sistema culturale. Emergono errori marchiani come il considerare “cinema” uno “schermo”, e quindi si legge in un documento ufficiale dello Stato che in Italia sarebbero attivi oltre 4.800 cinematografi, allorquando quella cifra corrisponde al totale degli schermi e non delle sale. Emergono mancanze intollerabili come la totale assenza di dati e analisi sull’industria audiovisiva non cinematografica, ovvero la fiction televisiva, sui videoclip musicali o sui videogame. Emergono buchi impressionanti come la totale assenza di dati sulle librerie o sulle edicole, o ancora sui festival… Cifre molto “mini”, in sostanza?! E politicamente innocue. “No data” = “No trasparenza”.

Il Ministero si è avvalso della consulenza della società di ricerche Cles srl, guidata da Alessandro Leon, che è anche presidente della Associazione per l’Economia della Cultura (Aec), che ha lavorato assieme alla Ptsclas spa, ovvero sempre gli stessi soggetti che operano in regime di quasi duopolio nell’ambito delle ricerche settoriali. La Società Italiana Autori Editori (Siae) affida da tre anni al Cles alias Aec il suo annuario statistico, nel quale non si legge una riga una di critica allo status quo.

Il Ministero ha affidato le “Minicifre” anche a Ptsclas spa, che è la stessa società che ha curato per sei anni di seguito – assieme all’Università Cattolica – quella che avrebbe dovuto essere la “valutazione di impatto” della Legge Franceschini su cinema e audiovisivo, e che curiosamente non ha mai messo in evidenza che il “tax credit” (privo di adeguati controlli) ha prodotto un deficit del bilancio dello Stato di oltre 1,4 miliardi di euro (senza pensare alle derive truffaldini di una parte dei beneficiari). Lo stesso Stato che ha ridimensionato e svuotato di funzioni quel ministeriale Osservatorio sullo Spettacolo che era stato previsto ab origine dalla cosiddetta “legge madre” sullo spettacolo voluta dal compianto Ministro socialista Lello Lagorio nel lontano 1985…

Ritengo esista un preciso disegno politico nell’indebolire gli strumenti di conoscenza e nello stimolare ricerche addomesticate: in questo modo, il Principe può operare senza scrupoli e diviene sempre più difficile che qualche voce fuori dal coro possa gridare “il Principe è nudo!”.

L'articolo Pochi dati frammentati e ricerche addomesticate: così il sistema culturale italiano resta opaco proviene da Il Fatto Quotidiano.






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