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Una lingua per le immagini e uno spazio morale (anche contro le guerre), così Max Richter ha riportato la musica colta dentro la vita di tutti i giorni

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Nel panorama contemporaneo, dove le definizioni artistiche sembrano evaporare come nebbia al sole, Max Richter continua a rappresentare un’incursione lucida nel territorio della musica colta. Anglo-tedesco, classe 1966, formatosi tra Edimburgo, Londra, Firenze e soprattutto nella scuola di Luciano Berio, Richter non è soltanto un compositore: è un costruttore di ponti. Ponti tra tradizione e futuro, tra lirismo e minimalismo, tra l’ascolto “alto” delle sale da concerto e la sensibilità emotiva del grande pubblico abituato alle colonne sonore. Ma soprattutto, ponti tra estetica e responsabilità civile, in un tempo che sembra aver dimenticato il valore etico della bellezza.

È quasi un paradosso che un musicista così profondamente radicato nella tradizione europea, capace di maneggiare il contrappunto con la naturalezza di un artigiano del Rinascimento, sia diventato uno dei principali interpreti della nuova ondata neoclassica che popola playlist, cinema, serie televisive, musei e installazioni d’arte. Eppure, è proprio in questa tensione tra rigore e immediatezza che si nasconde la cifra più autentica del suo lavoro. La svolta arriva nel 2012 con l’album Recomposed by Max Richter: Vivaldi – The Four Seasons, un’operazione tanto audace quanto rivelatrice. Richter non si limita a riorchestrare o “modernizzare” Vivaldi: lo attraversa, lo filtra, lo modella con la lente analitica del minimalismo e con la cura scenografica del sound design. Il risultato è un’opera che non cancella l’originale, ma lo rimette in circolo, lo riporta alla vita. È un gesto concettualmente netto: l’atto di un compositore che dichiara che il passato, se maneggiato con intelligenza, può ancora essere materia viva.

Ma la ricomposizione è solo una parte del suo percorso. Chi conosce il suo lavoro per il cinema e la televisione (L’amica geniale) sa che Richter parla la lingua delle immagini con una naturalezza impressionante. Waltz with Bashir, Ad Astra, Mary Queen of Scots, The Leftovers, Hamnet: ognuna di queste colonne sonore restituisce un pezzo del suo universo. Cicli ripetitivi che si sviluppano in lente spirali emotive, pianoforti che sembrano sospesi in uno spazio rarefatto, archi che avanzano come correnti sottomarine, improvvisi lampi armonici che illuminano la scena con la precisione di un fotogramma. Richter compone come un regista: ogni nota è un’inquadratura, ogni crescendo una transizione, ogni pausa un taglio di montaggio.

Ma ciò che colloca Richter in un territorio davvero unico è il suo costante impegno civile. Non è un intellettuale che predica dal palco: usa la musica come un dispositivo politico, come un amplificatore delle fragilità umane. Uno dei tratti più sorprendenti della sua opera è la capacità di far convivere l’intimità del gesto musicale con l’urgenza dei temi globali. La sua non è una militanza esterna, ma un impegno che si incarna nelle strutture stesse della musica. Non sorprende quindi che molte delle sue composizioni nascano come risposte emotive o intellettuali a eventi geopolitici, crisi umanitarie o dilemmi etici del nostro tempo. Uno dei lavori in cui questo impegno emerge con maggiore forza è The Blue Notebooks (2004), probabilmente il suo album più emblematico. Scritto come protesta contro l’invasione dell’Iraq nel 2003, intreccia testi di Franz Kafka e Czesław Miłosz letti da Tilda Swinton, creando un diario sonoro che riflette la fragilità del pensiero umano in tempi di violenza. I brani, sobri e meditativi, alternano archi e pianoforte in un’atmosfera sospesa, come se la musica stessa tentasse di interrogare la legittimità della guerra e le sue ombre morali.

La guerra, tuttavia, non è solo un tema politico ma anche un trauma collettivo che Richter esplora più volte. In Memoryhouse (2002), il suo album d’esordio, compaiono riferimenti espliciti ai conflitti balcanici degli anni ’90, alla devastazione di Sarajevo, ai desaparecidos della storia europea recente. Il disco si muove come un reportage poetico: frammenti di voci d’archivio, armonie malinconiche e atmosfere da documentario creano un paesaggio emotivo che restituisce la guerra dal punto di vista dei civili, dei luoghi feriti, della memoria.

La questione della fragilità sociale e della paura collettiva emerge anche in Infra (2010), scritto originariamente per una coreografia del Royal Ballet e poi ampliato in un album ispirato agli attentati di Londra del 7 luglio 2005. Qui Richter non compone una musica “sulla tragedia”, ma una musica “dopo la tragedia”: un tentativo di comprendere come una città attraversa lo shock, come le persone riorganizzano l’emotività dopo una ferita. E l’elettronica sottile che accompagna gli archi nei brani dell’album amplifica la sensazione di smarrimento, dando vita ad un paesaggio urbano incrinato e al tentativo umano di ricostruire una normalità fragile.

E poi il tema della migrazione che emerge in più lavori, spesso in modo sotterraneo ma riconoscibile. In Voices (2020) e Voices 2 (2021), dedicati alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), Richter include fra le voci molte testimonianze di rifugiati e attivisti, e ha dichiarato di aver concepito l’opera come risposta all’ondata di retorica anti-migratoria in Europa e negli Stati Uniti. La voce di Eleanor Roosevelt convive con centinaia di lettori provenienti da tutto il mondo, dando spazio alle vittime silenziose della negazione dei diritti umani di oggi e di ieri.

I lettori si alternano scandendo tutti i trenta articoli della Dichiarazione, dall’iniziale All Human Beings, e la musica diventa lo strumento di questa operazione: archi e pianoforte, nel consueto stile del musicista tedesco, creano mondi dilatati e sognanti, minimalisti e (a volte) ripetitivi, ma capaci di aprirsi in stringenti crescendo melodici. Il progetto, costruito su un’ “orchestra negativa” (gli archi suonano quasi esclusivamente registri bassi, come un mondo che fatica a sollevarsi), è una meditazione sulla dignità e sulla necessità di proteggere chi fugge da guerra e persecuzioni.

Anche la questione della sorveglianza digitale e del controllo sociale è entrata nel suo orizzonte creativo. Pur non essendo legato a un singolo album tematico, questo tema ritorna in molte sue dichiarazioni pubbliche e in alcune partiture che esplorano la tensione tra intimità e esposizione. In particolare Sleep (2015), nella sua apparente quiete, è stato interpretato dallo stesso Richter come un’opera che difende uno spazio privato in un’epoca in cui la tecnologia invade ogni interstizio della vita. Questo concept album sfida apertamente i confini della musica stessa: otto ore di partitura (l’intero ciclo di un riposo notturno) pensate per essere ascoltate dormendo, o meglio, abitandole. Trentuno sezioni composte per pianoforte, violoncello, due viole, due violini, organo, voce soprano, sintetizzatori ed elettronica. E durante la realizzazione, Richter si è avvalso della collaborazione del neuroscienziato americano David Eagleman per apprendere cosa accade nel cervello durante il sonno. Non si tratta di una provocazione, ma di una riflessione sulla lentezza e sul rapporto tra coscienza e arte. Sleep non chiede di essere capito, chiede di essere vissuto. È una risposta poetica alla frenesia del mondo tecnologico, un atto di resistenza attraverso la calma. La sua lunghezza, la sua dolcezza e la sua inattualità diventano un gesto politico: rivendicare il diritto a un tempo non sorvegliato, non monetizzato, non manipolato.


Ora, questo impegno sociale non si esaurisce nelle sue composizioni. In più occasioni Richter ha partecipato a campagne per la tutela dei diritti civili, ha sostenuto ong impegnate nei corridoi umanitari, ha suonato in contesti istituzionali per richiamare l’attenzione su crisi dimenticate. Ha dedicato concerti a rifugiati siriani, ha collaborato con Amnesty International e ha firmato appelli contro le politiche anti-migratorie e contro l’erosione delle libertà civili. La musica, per lui, non è mai un rifugio dal mondo: è un luogo attraverso cui tornare nel mondo con maggiore lucidità.

Ed è proprio questa fusione tra estetica e responsabilità che rende Richter una figura chiave della musica di questo secolo. Nella sua opera convivono la precisione del compositore di scuola europea, la sensibilità popolare di chi conosce i linguaggi delle immagini e dei media e la tensione morale dell’artista che non accetta l’irrilevanza come destino. Le sue partiture, pur spesso essenziali, sono dense di significati; il loro minimalismo non è riduzione, ma concentrazione. Ogni nota sembra dire: “Ascoltare è un atto politico”. In un mondo saturo di suoni, Richter ha costruito una poetica dell’ascolto consapevole. Le sue melodie non pretendono di essere ricordate: pretendono di essere vissute, condivise. Che si tratti di una sala da concerto, di un film o di uno spazio intimo, la sua musica lavora sull’interiorità, sul fragile equilibrio tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Forse è per questo che è diventato, quasi senza clamore, uno degli autori più influenti del nostro tempo: perché è riuscito a riportare la musica colta dentro la vita quotidiana, senza svilirne la complessità. Perché ha costruito un linguaggio in cui Bach può dialogare con l’elettronica, la filosofia con la cronaca, il sogno con la responsabilità. E perché, in definitiva, ci ricorda una verità che troppo spesso dimentichiamo: che la musica non è solo un’arte, ma uno spazio morale. Un luogo dove l’umano può ancora trovare rifugio, e forse anche direzione.

L'articolo Una lingua per le immagini e uno spazio morale (anche contro le guerre), così Max Richter ha riportato la musica colta dentro la vita di tutti i giorni proviene da Il Fatto Quotidiano.






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