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2024

Rafah, vent’anni fa l’Operazione Arcobaleno: il fallimento di una vendetta

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Rafah, vent’anni fa l’Operazione Arcobaleno: il fallimento di una vendetta

Esattamente venti anni l’IDF terminava “Rainbow Operation”, un’operazione militare su vasta scala a Rafah ordinata dal premier dell’epoca Ariel Sharon per rispondere a due sanguinosi agguati nella Striscia dov’erano morti 11 soldati. Uno di questi proprio nella “Philadelphi Road”, la strada sterrata che corre lungo i 13 chilometri di confine di Gaza con l’Egitto e […]

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Esattamente venti anni l’IDF terminava “Rainbow Operation”, un’operazione militare su vasta scala a Rafah ordinata dal premier dell’epoca Ariel Sharon per rispondere a due sanguinosi agguati nella Striscia dov’erano morti 11 soldati. Uno di questi proprio nella “Philadelphi Road”, la strada sterrata che corre lungo i 13 chilometri di confine di Gaza con l’Egitto e costeggia la città di Rafah.

L’ordine per i generali dell’IDF era di scovare e eliminare i miliziani di Hamas e della Jihad islamica nella zona, eliminare le basi di lancio dei missili (che allora erano i rudimentali Qassam, più simili a un petardo), la ricerca e la distruzione dei tunnel del contrabbando che passavano sotto la frontiera. Di armi ne passavano poche all’epoca, perché il regime di Hosni Mubarsak teneva sotto controllo il Sinai, il contrabbando era più di beni e merci, dalla lavatrice al forno, il frigo e poi mobili, telefonini, computer. In Egitto tutto costava meno.

La Striscia all’epoca stava “passando di mano”. Nei dieci anni – dal 1994 con l’accordo “Gaza e Gerico Before” stabilito a Oslo – di amministrazione dell’ANP a Gaza, i gruppi islamisti man mano avevano preso piede e Yasser Arafat non voleva scontrarsi con loro. L’anziano leader – morirà misteriosamente nel novembre 2004 – non aveva più il polso per tenerli. Hamas aveva a Gaza i suoi massimi leader, lo sceicco Ahmed Yassin e il pediatra Abdelaziz al Rantissi. Saranno uccisi nello stesso modo a un mese di distanza: da un missile sganciato da un elicottero Apache nella primavera del 2004.

In questo clima di crescente tensione il premier Sharon, l’ex generale di mille battaglie, aveva ordinato l’Operazione Rainbow. Nell’aria c’era già la decisione di “ritirare” i 9.000 coloni dalla Striscia entro l’agosto 2005, e Arik non voleva che ci fosse un’atmosfera di fuga, di ritirata. Questa parola “ritirata” a noi giornalisti fu vietata dalla censura militare, dovemmo usare la traduzione inglese di “withdraw”, che in italiano suona “ripiegamento”, pena l’immediato ritiro dell’accredito stampa. Rainbow si rivelò per quel che era: una vendetta per ripristinare il morale dell’esercito. Ma rappresentò un’opportunità per due obiettivi di Israele: la continua demolizione delle case palestinesi, in particolare lungo l’area della Philadelphi Road al confine con l’Egitto, e lo smantellamento di Hamas e della Jihad islamica a Rafah prima che i coloni ebrei venissero ritirati dal territorio. L’IDF promise che non avrebbe permesso che Gaza diventasse un “Hamastan”.

Solo due quartieri relativamente tranquilli di Rafah, Tel al-Sultan e al-Brazil, vennero però “messi in sicurezza” dall’IDF. I militari non fecero mai irruzione in aree più calde come Shabura, Block O o Yibna, dove si aspettavano invece un’intensa resistenza.

L’aumento delle vittime civili cominciò a seminare i primi dubbi e far crescere le pressioni internazionali, in particolare dopo che un carro armato sparò contro un gruppo di manifestanti uccidendone almeno dieci. L’IDF cercò di scaricare la responsabilità al solito modo, sostenendo che tra la folla c’erano uomini armati che minacciavano le sue truppe. Versione smentita poi da testimoni e investigazioni dell’Onu: nessun manifestante era armato.

Fino a quando i palestinesi non tornarono nelle loro case distrutte e il mondo guardò la televisione, l’esercito sostenne di non aver demolito alcuna casa. Come si è scoperto, grazie ai giganteschi bulldozer corazzati Caterpillar D9 dell’IDF, intere file di strade erano invece state rase al suolo insieme allo zoo di Rafah in quella che sembrava una distruzione particolarmente gratuita. Solo un tunnel sotto il confine venne trovato e distrutto, nessun boss jihadista o di Hamas fu catturato.

Spinto dalle rivelazioni della stampa, alla fine l’IDF sostenne di aver demolito “solo” 51 edifici. Le Nazioni Unite e i gruppi israeliani per i diritti umani accertarono invece la distruzione di centinaia di case e circa 2.000 persone si andarono ad aggiungere al già vasto campo profughi palestinese di Rafah.

I colleghi israeliani definirono allora l’operazione un fallimento, perché l’IDF lasciò Rafah senza nemmeno osare entrare nel quartiere di Shabura dove si trovavano gli uomini ricercati. I palestinesi a cui venne impedito l’acceso a un vicino ospedale dell’Unrwa parlarono di 61 morti, metà dei quali civili, di cui 10 bambini. Centinaia i feriti.

In alcuni luoghi, come una maledizione, la Storia si ripete.

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