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Май
2024

Auto europea addio

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Con l’avvento dei modelli elettrici, il settore automotive del Vecchio continente sta perdendo la sua centralità a favore della Cina. E anche l’introduzione di dazi non fermerà l’emorragia di posti di lavoro e competenze.

Dopo aver perso elettronica, informatica, pannelli solari e batterie, ora l’Europa si gioca anche l’industria automobilistica? Il rischio è reale: forse la sua fine non è imminente, ma se andiamo avanti così, il destino di uno dei settori-chiave dell’economia europea è segnato. Stiamo parlando di 13 milioni di persone, impiegate direttamente (2,4 milioni) e indirettamente nel mondo delle quattro ruote, il 7 per cento della forza lavoro nel continente. Un simbolo della tecnologia europea che ora barcolla come un pugile suonato sul ring della competizione mondiale, prendendo pugni dai concorrenti cinesi e americani, mentre le politiche di Bruxelles e dei governi nazionali appaiono confuse, tra tentativi di sostenere la produzione e decisioni che vanno nella direzione opposta.

Ad accelerare la frana è stato l’avvento delle vetture elettriche, ma i primi granelli di sabbia furono posati molto tempo fa proprio dai produttori europei. Sono passati esattamente quarant’anni da quando, nel 1984, la Volkswagen sbarcò in Cina grazie a una joint venture con la Saic. Era l’inizio della conquista occidentale di quel promettente mercato. Ma come era prevedibile, l’obbligo imposto dalle autorità di Pechino agli stranieri di entrare nel Paese solo attraverso società create con case locali ha permesso a queste ultime di impadronirsi gradualmente delle tecnologie del Vecchio continente. E poi di superarle con l’avvento dell’auto elettrica, fortemente sostenuta dal governo cinese. I brand stranieri come Volkswagen, Toyota e Honda sono ancora tra i più apprezzati dai consumatori asiatici, ma stanno perdendo terreno e nel 2023 il numero uno del mercato più grande del mondo è stata la casa locale Byd.

Nel 2023 la Cina, diventato ormai leader globale del settore, ha sfornato più di 30 milioni di veicoli con un aumento del 17 per cento rispetto al 2019. Negli stessi anni la produzione nell’Unione europea (Regno Unito compreso) è scesa da 18 a 15 milioni di auto e furgoni, con un calo del 13 per cento. «L’importante vantaggio competitivo che l’Europa aveva sul motore a combustione viene meno nel momento in cui tutte le auto sono elettriche» ha dichiarato Luca de Meo, ceo di Renault e numero uno dell’associazione dei produttori europei Acea. «I cinesi hanno oggi una generazione di vantaggio, quindi la sfida per l’Europa è colmare questo gap». L’arrivo delle vetture a spina ha rappresentato un autentico elettroshock per le case europee, forti nei motori endotermici ma impreparate nella nuova tecnologia, prive dei componenti più importanti come le batterie e gravate da costi superiori rispetto a quelli dei concorrenti cinesi. La decisione dell’Unione di imporre lo stop delle vendite di auto inquinanti a partire dal 2035 avrebbe dovuto rappresentare un forte stimolo per spingere l’industria verso la riconversione, ma si sta rivelando invece un boomerang. Bruxelles è convinta che l’auto elettrica rappresenti oggi la soluzione più semplice ed efficace per ridurre le emissioni di sostanze inquinanti e di CO2.

Peccato che un’ampia e rapida diffusione di vetture a batteria fabbricate in Europa sia impossibile, visto che per ora sono troppo costose. Proprio in questi ultimi mesi le vendite di auto elettriche hanno rallentato e ciò ha messo ulteriormente sotto pressione le società occidentali. «L’automotive è pienamente ritornato a una situazione di sovracapacità produttiva» sostiene Dario Duse, country leader della società di consulenza AlixPartners. «Le cause? L’indebolimento della domanda, il contesto geopolitico ed economico, e soprattutto la crescita nettamente inferiore, rispetto alle attese, della domanda di vetture elettriche sulle quali si è scatenata una guerra sui prezzi, a partire dai due leader Byd e Tesla. L’elettrico, gravato da costi superiori alle pari versioni con motore a combustione, continua ad avere volumi produttivi per piattaforma e modello di gran lunga inferiori alle pari versioni endotermiche, con conseguente problema anche di capacità di assorbimento dei costi fissi». E così sul mercato continentale si è aperto un varco per le auto prodotte in Cina. Nota bene: prodotte. Cioè si tratta anche di vetture elettriche realizzate da case occidentali. Come l’americana Tesla Model 3, fabbricata nella gigafactory di Shanghai, la Smart realizzata dalla joint venture tra Daimler e Geely, la Dacia spring, la Mini Cooper della Bmw, la futura Cupra Tavascan, alcuni modelli Honda. E poi sono in arrivo le auto elettriche della Leapmotor, importate in Europa da Stellantis (che nel frattempo si oppone all’apertura di fabbriche cinesi in Italia).

Il risultato è che quasi un quinto (19,5 per cento) dei veicoli elettrici venduti in Europa l’anno scorso sono stati costruiti in Cina. I brand strettamente cinesi, in particolare, hanno conquistato l’8 per cento di questo mercato e l’organizzazione ambientalista Transport&Environment prevede che potrebbero raggiungere l’11 per cento nel 2024 e il 20 per cento nel 2027. Il valore delle esportazioni di auto a batteria dalla Cina all’Europa è cresciuto di sette volte nel giro di quattro anni, passando dagli 1,6 miliardi di dollari del 2020 agli 11,5 miliardi del 2023. Il successo dei veicoli del Dragone è dovuto soprattutto al prezzo più basso. Un vantaggio ottenuto grazie anche a sostanziose sovvenzioni pubbliche. Pechino nega, ma uno studio del Kiel Institute for the World Economy indica che il Paese sovvenziona pesantemente le sue industrie verdi. Le stime dicono che i sussidi complessivi della Cina vanno da tre a nove volte quelli di altri membri dell’Ocse, come gli Stati Uniti o la Germania.

Lo studio, pubblicato in aprile, rivela per esempio che il maggior produttore cinese di auto elettriche, Byd, avrebbe ottenuto sovvenzioni dirette per 2,1 miliardi di euro nel 2022. Gli Stati Uniti hanno reagito alla concorrenza sleale di Pechino annunciando il 14 maggio dazi altissimi sulle auto cinesi, pari al 102,5 per cento. L’Unione europea è costretta a muoversi con maggior cautela. il 4 ottobre scorso la Commissione ha avviato un’inchiesta anti-sovvenzioni sulle importazioni di veicoli a batteria dalla Cina che deve appurare se le catene del valore delle auto elettriche beneficino di aiuti illegali e se tali sovvenzioni arrechino o minaccino di arrecare un pregiudizio economico ai produttori europei. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha detto che «il settore dei veicoli elettrici presenta un enorme potenziale per la competitività futura dell’Europa e per la leadership industriale verde. I costruttori di automobili dell’Ue e i settori correlati stanno già investendo e innovando per sviluppare pienamente tale potenziale. Ove trovassimo prove del fatto che i loro sforzi sono ostacolati da distorsioni del mercato e concorrenza sleale, agiremo con fermezza».

L’indagine può durare fino a 13 mesi e la Commissione può imporre dazi provvisori anti-sovvenzioni nove mesi dopo l’inizio dell’indagine, quindi già a luglio prossimo. Secondo la società di ricerche Rhodium, l’inchiesta porterà all’adozione di dazi compensativi fra il 15 e il 30 per cento (oggi sono al 10). Ma ciò non basterà a eliminare l’enorme vantaggio competitivo accumulato negli ultimi anni dalle case cinesi e dai gruppi occidentali che in Cina assemblano veicoli destinati alla immatricolazione nei Paesi Ue. Per raggiungere tale risultato, sostiene Rhodium, le tariffe dovrebbero arrivare almeno al 50 per cento. Per Bruxelles è una scelta difficile: è meglio avere auto più care per difendere l’industria europea o più economiche per aiutare i consumatori e facilitare così la transizione ecologica? Un drammatico rebus. Complicato dal fatto che le case tedesche vendono ancora tanto sul mercato cinese, producono in loco e dunque sono contrarie ai dazi: il numero uno del marchio Volkswagen, Thomas Schäfer, ha avvisato che l’Europa si espone al rischio di «ritorsioni». Sulla stessa linea anche il ceo di Bmw, Oliver Zipse, e il capo di Mercedes-Benz, Ola Källenius. «Non pensiamo che la nostra industria abbia bisogno di protezione», ha dichiarato Zipse, secondo il quale, operare su base globale dà alle grandi case automobilistiche un vantaggio industriale, che «può facilmente essere messo in pericolo, se si introducono dazi».

Costruttori come Stellantis e Renault, che non hanno grandi attività in Cina, sono invece a favore dei dazi. In questa situazione ingarbugliata che cosa fanno i cinesi? Intanto stanno ingolfando i porti europei con migliaia di auto, in modo che vengano importate prima dell’imposizione di nuovi dazi. E poi si preparano a produrre in Europa per aggirare il problema. Del resto sono gli stessi Paesi membri dell’Unione a stendere tappeti rossi davanti a Pechino affinché apra fabbriche nel nostro continente e salvi posti di lavoro. L’Ungheria di Viktor Orbán ospita già stabilimenti Audi, Bmw, Mercedes e Suzuki e ha convinto alcune grandi aziende cinesi ad investire nel Paese, come Byd, Nio e il produttore di batterie Catl. La Spagna, alla prese con la chiusura di un impianto Nissan, è riuscita ad attirare la cinese Chery. Anche l’Italia vorrebbe aprire le porte a un gruppo cinese per controbilanciare il calo di produzione di Stellantis. Uno scenario che preoccupa le case europee: «Introdurre la concorrenza cinese è una grande minaccia per Stellantis» ha commentato l’amministratore delegato del gruppo Carlos Tavares. «Noi combatteremo, ma quando si combatte possono esserci vittime». Il paradosso è che la stessa Stellantis è entrata in Leapmotor e, come ha confermato Tavares, importerà i suoi modelli in Europa. Aiutare l’industria europea, mantenere l’occupazione, difendere i consumatori, abbattere le emissioni di CO2: quattro obiettivi difficili da conciliare. Toccherà al nuovo Parlamento europeo risolvere l’equazione. Con la prospettiva, tra qualche decennio, di vederci guidare solo auto cinesi.






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