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Май
2024

Università in subbuglio, arrivano i nuovi rivoluzionari? Macché, sono solo narcisi disperati

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Per favore non chiamateli contestatori né tantomeno rivoluzionari. Il gruppo di giovani esagitati che da qualche mese tiene in pugno le università italiane, a partire da La Sapienza di Roma, e che giovedì s’è trasferito all’Auditorium della Conciliazione per impedire al ministro Eugenia Roccella di parlare, questi rumorosi rappresentanti della generazione Z, non sono che […]

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Per favore non chiamateli contestatori né tantomeno rivoluzionari. Il gruppo di giovani esagitati che da qualche mese tiene in pugno le università italiane, a partire da La Sapienza di Roma, e che giovedì s’è trasferito all’Auditorium della Conciliazione per impedire al ministro Eugenia Roccella di parlare, questi rumorosi rappresentanti della generazione Z, non sono che una copia sbiadita dei baby-boomer protagonisti, tra il 1968 e gli anni Settanta, di una vera e propria mutazione antropologica della società europea.

I contestatori di ieri erano dentro un emisfero giovane e in crescita. Gli esagitati di oggi sono invece espressione di un pezzo di mondo invecchiato e in declino. Ieri c’erano la “rabbia” e l’“attesa”. Oggi ci sono invece il “livore”, il “rancore”, lo “scetticismo”, se non la disperazione. Ieri c’era il “noi” oggi l’“io”, un “io” smisurato e narciso, cresciuto a dosi massicce di smartphone e di social.

È bastata una manciata di decenni per cambiare il volto dell’Occidente? Sì, perché parliamo di decenni densi come secoli. Di quel passato furioso e tumultuoso sono rimasti i cimeli, con i quali si baloccano i “contestatori” di oggi. Da Lotta continua a Carnevale perpetuo. Perché di questo alla fine si tratta, di un travestimento teatrale ad uso (e abuso) dei media. Tra i gruppi che hanno boicottato la Roccella spiccano sigle iperboliche come “Collettivo Transfemminista”, sigle diligentemente annotate dai cronisti presenti. Che cosa vogliano dire non si sa. Ma fa lo stesso. Tutto è bene quel che finisce su giornali, tv e media vari.

Qualcuno potrà sentirsi annoiato dai ricorrenti paragoni tra il movimento del ’68 e le agitazioni dei nostri giorni. È come se la nuova generazione di “contestatori” dovesse patire l’amaro destino di un impari confronto tra epoche storiche. Il problema è che, con tutta la buona volontà, non si riescono a individuare una cultura e un’identità precise nelle odierne proteste.

Presente come il prezzemolo è solo il generico richiamo a un “antifascismo” di maniera, alimentato da certi intellettuali e da certi conduttori televisivi. Ha davvero il sapore della nemesi beffarda quanto capitato a David Parenzo e a Maurizio Molinari, i quali non hanno potuto prendere la parola (il primo alla Sapienza, il secondo alla Federico II di Napoli) perché contestati dai collettivi studenteschi al grido di “fascista” e “sionista”.

Quello che a questo punto risulta misterioso è il motivo per cui, a fare da detonatore alle agitazioni di questi mesi, sia la causa palestinese. Ci chiediamo perché i nuovi “contestatori” sentano il bisogno di cavalcare il disagio della loro generazione sventolando le bandiere di un popolo, martoriato quanto volete, ma la cui vicenda è comunque lontana (al netto dell’interconnessione globale) dal cuore vero dei problemi che affliggono i ragazzi di oggi, piaghe che si chiamano futuro incerto, prospettiva di precariato, destino di sottoccupazione.

Avrebbe ad esempio avuto un senso se, negli ultimi mesi del 2023, mentre i grandi d’Europa discutevano del nuovo Patto di stabilità, fosse esploso un imponente movimento di protesta giovanile contro le politiche d’austerità imposte ai governi dalla Ue, causa prima (soprattutto in Italia) di quella quaresima perpetua che sta devastando la vita delle nuove generazioni e che impedisce i necessari investimenti sul domani della nostra società.

In quel caso, non si sarebbe potuto che dire «sì, è giusto», «questi ragazzi hanno ragione». In fondo, negli ultimi decenni, l’unico movimento di protesta giovanile che ha avuto una sua ragion d’essere è stato il movimento no-global, affermatosi al varco del millennio, dopo la rivolta di Seattle, contro l’impoverimento sociale provocato dai dogmi liberisti trionfanti. Ma poi sappiamo come è andata a finire, con i torbidi fatti di Genova e di Praga. E anche con il “dirottamento” della storia mondiale seguito all’11 settembre del 2001.

Insomma, che c’entra la causa palestinese con il destino di una generazione senza futuro? Sì, c’è il “contagio” delle università americane. Ma anche lì c’è qualcosa di strano, che riconduce alla proliferazione della cultura “woke”.  Parliamo di una cultura ispirata dal risentimento. Andrea Zhok la definisce «un umore, un’inclinazione, insieme “rivoluzionaria” e “risentita” per gli esiti deludenti del ’68, che si esprime in proposte di carattere eminentemente negativo» (“La Profana Inquisizione e il Regno dell’Anomia”, il Cerchio).

Particolare significativo: il mondo woke può crescere soltanto in una temperie culturale dominata dall’individualismo neoliberale e dall’egotismo post-moderno. «È proprio solo l’alleanza con i meccanismi neoliberali – osserva ancora Zhok – a consentire all’ideologia woke di presentarsi come una cultura egemone invece che come un affastellamento di confabulazioni squilibrate».

Intendiamoci, la cultura woke non pare avere ancora attecchito in Italia. Però, comune ai “contestatori” di Usa ed Europa è un individualismo aggressivo e disperato. A esprimere il sottofondo di depressione che c’è nelle proteste degli studenti può dunque andar bene anche la causa palestinese. Ecco cosa ha gridato, a un certo punto, la giovane contestatrice della Roccella che ha letto il proclama delle neo-femministe: «C’è un genocidio in corso e voi venite a dirci di fare figli?». Più chiari di così…

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