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2021

Sesso a forza sul lavoro: «Temevo mi cacciasse». Dieci anni di ricatti e molestie: il racconto choc

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Sesso a forza sul lavoro: «Temevo mi cacciasse». Dieci anni di ricatti e molestie: il racconto choc

Giulia descrive gli abusi e i maltrattamenti in una confezione di Prato: «Ho sopportato per dieci anni. Che incubo la lingua nell’orecchio». Il datore di lavoro rinviato a giudizio

Ancora non sa decidersi Giulia (nome di fantasia, per tutelare la vittima ) se le ha fatto più male la lingua nell’orecchio “per punizione”. Oppure le aggressioni fisiche. Piegata a novanta gradi sulla scrivania, il capo addosso, per farle capire chi comandava. Oppure la violenza in piedi, sbattuta contro la macchinetta del caffè, le mani del capo intorno al collo: «Eccola la paladina della giustizia. Devi stare zitta, non conti un cazzo». La vita quotidiana nella ditta di confezioni, in provincia di Prato. Prima della denuncia per maltrattamenti sul luogo di lavoro. «Lo so che la gente da fuori, quando scopre quello che hai vissuto, ti guarda come una marziana. “Ma come hai fatto a sopportare per anni?” ti chiede. Io so solo che vivi nel terrore di perdere il lavoro. Hai le mani addosso e ti dici: oddio e se mi manda via come pago l’assicurazione? Come pago le medicine a mia madre? Come metto la benzina e come pago le bollette?».

DIECI ANNI DI MOLESTIE

Oggi Giulia paga i conti con un altro lavoro. Le stesse domande le ripete in aula. Il suo ex datore di lavoro è rinviato a giudizio per maltrattamenti sul luogo di lavoro. La ditta di confezioni dove ha lavorato per una decina di anni è fallita. Lui ne ha già aperta un’altra. Con altre dipendenti. Non ne vuole sapere nulla Giulia di quello che lui fa ora. Si concentra su quello che le ha fatto dal 2008 al 2016 «con cadenza pressoché giornaliera», si legge nel capo di imputazione. Fino a quando non si è decisa ad affacciarsi alla Cgil a chiedere aiuto: «Se è vero che lo conoscete, se è vero che è intoccabile come mi dice perché vi paga cinquemila euro l’anno di pubblicità ditemelo subito. Me ne vado». Alla Cgil hanno spalancato gli occhi e iniziato una causa di lavoro con l’avvocata Marina Capponi. Poi è partita anche quella per maltrattamenti, attraverso lo Sportello Donna della Cgil. La segue l’avvocata Amelia Vetrone. “L’avvocatina”, la chiama con disprezzo l’ex datore di lavoro di Giulia, la prima volta che se la trova davanti in aula. Aveva già avvertito la sua ex dipendente: «Se hai un avvocato donna la spezzo in due». Non c’è riuscito. Né con Giulia né con l’avvocata.

LA DEPRESSIONE

Con Giulia c’è andato vicino. Lo testimonia la diagnosi del Centro per lo studio del disadattamento lavorativo di Careggi che, per sei mesi, segue la lavoratrice. Le diagnostica un «disturbo depressivo maggiore associato a disturbo di panico ... Si ritiene che le vicende lavorative avversative abbiano svolto un ruolo sulla più recente riacutizzazione del quadro psico-patologico». Una conclusione scontata, visto il clima denunciato da Giulia in azienda: insulti – “troia, maiala” – e proposte oscene – “ti metto a pecora”, “fammi una pippa” – fino alla violenza fisica. E perfino al sequestro di persona.

LE MANI SOTTO LE GONNE

«I primi mesi in azienda – racconta Giulia – il suo comportamento era sopra le righe, ma non con me. Con le lavoranti cinesi. Prese una ragazza per un braccio e le fece un livido enorme perché aveva sbagliato a cucire una cosa. Metteva le mani sotto le loro gonne. Una volta gli urlai: “Oh!”. Mi rispose: “Ma qui è tutto normale”. Le ragazze cinesi non si azzardavano a dire nulla. Venivano portate da un caporale cinese che ogni tanto passava a controllare come si comportavano, che cosa facevano. Il problema è che si stava tutti zitti anche noi, noi italiani. Lo so che avrei dovuto protestare, ma non ce la facevo».

LE PRIME MOLESTIE

Pochi mesi dopo, però, le molestie iniziano anche con Giulia. All’inizio lei cerca di minimizzare. «I primi tempi non dicevo nulla perché mi volevo tenere il lavoro«. E anche perché (ancora) il datore di lavoro non le mette le mani addosso. Ma la situazione si fa pesante. «Un giorno eravamo in autogrill, una sosta durante un viaggio per la Germania. Mi ero presa un leccalecca e lui iniziò a gridare: “Guardatela, si allena perché stasera me lo piglia in bocca”. Volevo morire. Ancora stavo zitta, per paura della disoccupazione. Ma poi iniziai a rispondere. Lui non lo sopportava. Gli dicevo: “Hai una moglie, vai da lei a farti fare quelle cose”. Non lo tollerava. Mi strattonava, mi prendeva per le braccia, mi attaccava alla macchinetta del caffè per il collo e urlava perché tutti lo sentissero: “Sei la paladina della giustizia, ma impara a farti i cazzi tuoi”.

LE PUNIZIONI

Le molestie si estendono anche ad altre dipendenti. Ma Giulia resta la “favorita”. “Buongiorno, come ti senti? Vieni a farmi una pippa”. Questo il saluto quotidiano. Poi dalle parole si passa ai fatti. Una mattina la chiama in ufficio: «Vieni qui un attimo, ti metti sotto la scrivania – le dice – e mi raccatti quella cartina». Poi, racconta Giulia «si allargò le gambe e si infilò una mano nella patta. Diventò un’abitudine». Come quella di “punirla” per le risposte. Più Giulia rispondeva, più lui diventava aggressivo. «Quando rispondevo ai suoi insulti, alle sue proposte oscene, veniva al mio tavolo di lavoro, spezzava le penne, le matite e poi mi afferrava i polsi. Anche se provavo a divincolarmi, mi sbatteva con la pancia sul tavolo, si metteva sopra di me poi mi afferrava la testa, me la girava e mi infilava la lingua nell’orecchio. Lo ha fatto cento volte. No, duecento. No forse di più. Ho smesso di contarle».

Se, invece, Giulia non gli risponde, il copione è simile, con una variante: lui grida: «Voglio sapere cosa hai. Il tuo tempo è mio e ora stai qui fino a quando non mi dici che cosa hai».

LE AGGRESSIONI FISICHE

Niente sembra riuscire a tranquillizzare la situazione. Un giorno, di tarda primavera, maggio o giugno, c’è un’aggressione più grave delle altre, ricorda Giulia. La scatena un episodio da nulla. Un bocchettone dell’aria. Invece di far uscire aria fredda, emana aria calda. Una lavorante cinese lo accende in continuazione scambiandolo per una presa dell’aria condizionata. Giulia lo spegne. Scoppia un battibecco. Arriva il “padrone”: «Allora Giulia, tu non hai capito un cazzo. I cinesi contano più di voi italiani. Se lei vuole quel coso acceso, quel coso resta acceso». Giulia non ci sta: «A parte che quel coso non è a norma, io ci sto sotto e soffoco». Le parole ancora in bocca, lui la schianta contro una porta, la ferisce a un ginocchio e la scaraventa dentro un magazzino. «Poi urlò a tutti di non entrare. Chiuse a chiave la porta e successe il finimondo. Mi prese per il collo, io tentai di difendermi, ma lui era più forte. Con l’orologio che aveva al polso mi graffiò anche il viso. Cercai di afferrare il cellulare per chiamare i carabinieri ma me lo strappò di mano, lo scaraventò nel muro e lo mandò in mille pezzi. Poi me lo ricomprò. Quando si fu sfogato mi disse: “Dai ora calmiamoci, lavati il viso e vai a casa”. Come una cretina, montai in auto piangendo e tornai a casa. Ora non glielo consentirei più».

LE MINACCE

Ma in quegli anni Giulia ancora non ce la fa a opporsi. «Mi costringeva perfino ad andare a mangiare la pizza con lui in pausa pranzo. Se non montavo in auto mi diceva: “Se non fai come dico io faccio ammazzare tua madre dalla mafia calabrese” e ti faccio gambizzare, così passi la vita su una sedia a rotelle”. Non riuscivo a non crederci».

Poi, però, il fisico si ribella. Giulia inizia a dimagrire a vista d’occhio. «Vomitavo. Non riuscivo a sopportare più nulla. Il mio corpo rifiutava quello che accadeva sul lavoro. Avevo smesso di mangiare: non riuscivo nemmeno a deglutire l’acqua. Mangiavo solo dolci. L’unica cosa che tolleravo. Ho fatto crac. E sono andata in cura. Poi me ne sono andata. Dimissioni per giusta causa. Quindi è iniziata la causa di lavoro e le cure in ospedale. Hanno dovuto insegnarmi di nuovo a mangiare. Non ero capace più di nutrirmi. Non riuscivo neppure a stringere la mano a un uomo, quando me ne sono andata da quell’azienda». Fra la meraviglia dell’ex datore di lavoro: «Pensi di denunciarmi? Vai, vai. Voglio proprio vedere che mi fanno». Ora ha la possibilità di saperlo. C’è un tribunale che gli sta per rispondere. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA






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