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La Ddr, fabbrica dell’orrore. Storia di Heidi, devastata dal doping: «Mi sono salvata diventando uomo»

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La Ddr, fabbrica dell’orrore. Storia di Heidi, devastata dal doping: «Mi sono salvata diventando uomo»

La Germania Est e lo sport degli stregoni. Dal 1968 al 1988, migliaia di vite rovinate per conquistare 500 medaglie

Heidi ha un sorriso dolce e un visetto paffuto, quando non ha ancora 14 anni ed entra in quello che crede sia il paradiso dello sport. Invece altro non è che una delle sedi della fabbrica dell’orrore, la scuola per giovani atleti della Dynamo Sports Club di Berlino. Heidi ha il torto di essere brava, nell’inverno del 1979, quando due stregoni travestiti da allenatori la notano nelle competizioni del doposcuola e cominciano a farla sudare là dove il tempo della fatica si chiude sempre con strane pillole blu. E non bisogna chiedere che roba sia. Perché lì comanda la Stasi, il ministero per la sicurezza di Stato della Ddr, la Germania Est. Di fatto la polizia che tiene in scacco i cittadini, con un agente o una spia ogni 59 abitanti. Il Potere che controlla gli Altri.

Le Vite degli Altri è diventato un film da Oscar. Negli anni bui del regime invece è una storia quotidiana di puro terrore. In questo Stato satellite dell’impero sovietico, gli Altri non hanno diritti, solo obblighi. E quelli che fanno sport sono come polli in batteria, nutriti a suon di allenamenti massacranti e farmaci che gonfiano i muscoli e truccano il sangue. Il fondo del pozzo della vergogna.

Heidi, Heidi Krieger, cresce sognando il successo, come ogni altra ragazza o ragazzo della sua età che si affaccia allo sport, solo che qui i sogni nascondono incubi a orologeria. «Io – racconterà più avanti – in fondo volevo solo essere la prima donna a lanciare il peso oltre i 23 metri». Nell’anno del suo ingresso nella scuola della Stasi, il record del mondo è di un’altra tedesca dell’Est, Ilona Slupianek, 22,45. Solo la sovietica Natalja Lisovskaja farà meglio, 22,63, il 7 giugno 1987 e oggi, 33 anni dopo, il record è ancora quello, residuo di un’epoca più che sospetta.

DA 70 A 105 CHILI
Heidi non lo sa cosa c’è sotto. I suoi lineamenti cambiano, è alta 1,85 e passa da 70 a 105 chili in meno di 24 mesi, fra i 15 e i 17 anni, tutta massa muscolare in un corpo sempre meno femminile. Dentro la fabbrica dell’orrore questo non conta, anzi sembra tutto a posto: viene trattata bene perché ottiene risultati, vittorie, l’unica cosa che conta in una logica devastata e deviata come quella. Dal 1981 al 1986 la sua progressione è fuori da ogni logica: con quella palla di ferro da quattro chili, passa da lanci di 14 metri a 21,10: la sua migliore misura nella finale degli Europei al Neckarstadion di Stoccarda, nell’altra Germania, quando fa suo il titolo. Nel 1983 ha già vinto gli Europei juniores ma in poco tempo è profondamente cambiata. Oltre al peso, si notano spalle più larghe e possenti, mascella quadrata, seno zero. Insomma, quasi un uomo. Per giunta non tutto va più liscio come prima, arrivano gli infortuni, i risultati calano. Nel 1991 si ritira ma già da tempo non sta bene, alterna euforia a depressione. C’è di mezzo quella pillola blu, che altro non è che uno steroide, ormoni maschili. In un anno, il 1986, 2.590 milligrammi, il doppio di quelli somministrati a Ben Johnson, il velocista canadese squalificato per doping alle Olimpiadi di Seul del 1988.

IL VENTENNIO DELLA VERGOGNA
Quello di Heidi, purtroppo, non è un caso isolato. Il doping nel ventennio fra il 1968 e il 1988 è più che una prassi nella Ddr, pratica non esclusiva ovviamente. Solo che nel blocco sovietico spesso è pratica di Stato. In Romania, ad esempio, sempre con cure massicce di ormoni, bloccano la crescita delle giovani ginnaste. La Germania Est è un piccolo Paese, poco più di 16 milioni di abitanti, e spesso è davanti a Urss e Usa nei medaglieri delle Grandi manifestazioni. Solo alle Olimpiadi arrivano 519 medaglie, 499 nel ventennio dello scandalo. Appena 59 in meno di quante l’Italia ne abbia raccolte nell’intera storia dei Giochi.

Sono guardati con sospetto, quelle atlete e quegli atleti. Da Città del Messico 1968 a Calgary 1988, un anno prima del crollo del muro di Berlino, gli alambicchi di regime lavorano a pieno ritmo, alimentando qualcosa in più che semplici sospetti di fronte a record mondiali che resistono ancora oggi, a partire da quello di Marita Koch sui 400 metri (47”60 nel 1985). Certo, non c’è solo il doping: l’attività fisica diffusa a ogni livello, l’opera di reclutamento nelle scuole e il fiorire di centri sportivi sono la parte buona di una strategia folle. Le raffinerie del sangue arricchito sono tre: Berlino, Lipsia e Dresda, sedi dei centri sportivi nazionali. Le donne si prestano meglio degli uomini, ci sono più margini. Gli atleti, a parte pochi, sono cavie umane. Per ogni medaglia conquistata vengono “bruciati” almeno 80 bambini. Quelle pillole blu si chiamano Oral-Turinabol e sono prodotte dalla Jenapharm, ogni anno in cinque tonnellate. L’azienda sa bene che quello non può essere il fabbisogno normale. “Dopo” dovrà fornire quattro degli otto milioni di risarcimento che la Germania pagherà agli atleti.

IL PROCESSO AI CARNEFICI
I principali artefici di quel massacro vanno sotto processo nel 2000, il medico Manfred Höppner e il ministro dello sport Manfred Ewald vengono condannati quali ideatori del sistema. Ma è chiaro che i massimi vertici dello Stato, fino al presidente di quel periodo, Erich Honecker, siano coinvolti, così come tutti quegli allenatori che troveranno lavoro al servizio di altre federazioni, le stesse che puntavano il dito e che ancora oggi provano a sfruttare i residui di quella maleodorante sapienza.

Al processo le testimonianze sono da brividi. Le vittime stimate sfiorano quota diecimila, duemila ex atleti danno vita a un’associazione. Presidente è la velocista Ines Geipel, componente di una staffetta 4 per 100 della Sc Motor Jena che ha ancora il record mondiale per società con 42”20: sugli annuari però ci sono solo tre donne e una “ics”, quella che Ines è riuscita a far mettere al posto del proprio nome: «Ci definivano diplomatici in tuta, in realtà eravamo inconsapevoli soldati civili. L’obiettivo era dimostrare la superiorità del socialismo e per conseguirlo ogni mezzo era considerato lecito. Nel 2005, dopo la fine del processo, ho ottenuto di cancellare il mio nome da quel record».

Le sostanze dopanti sono ricercate e sviluppate dallo Stato. Si chiama “piano statale numero 14.25”. A oggi ci sono ancora cento atleti sotto cura psichiatrica e la lotta per i risarcimenti riguarda anche migliaia di bambini nati malformati da atlete con il sangue truccato. Atletica, pesi, nuoto, sci di fondo, quasi ogni sport è buono per creare mostri, carne da medaglia. Ancora Heidi Krieger: «Sollevavo pesi fino allo sfinimento. In due settimane più di cento tonnellate. E poi c’erano quelle pillole. I miei successi erano fasulli, li avevo ottenuti con la chimica, con il doping. Ma non lo sapevo».

Si scopre anche che il doping ormonale durante l’adolescenza può influenzare l’identità di genere di una persona. Heidi fuori dalla fabbrica dell’orrore si libera dall’incubo della fatica e delle pillole blu ma non dal suo malessere. Nel frattempo va a lavorare come commessa in un negozio di animali, sono finiti i tempi dei viaggi all’estero come premi per i trionfi: «Mi avevano concesso viaggi ben sorvegliati nella Germania Ovest e in Svezia. Dopo, anche volendo, mi era passato il desiderio. Vivevo in uno stato di buio, non mi riconoscevo più in quel corpo, in quella situazione. Diventare uomo mi ha salvato la vita».

HEIDI DIVENTA ANDREAS
Sì, oggi Heidi si chiama Andreas. L’intervento nel 1997, la decisione nel 1995. «Un mio compagno di lavoro mi riconobbe per quello che sono. Mi disse cosa mi stava succedendo. Disse che era transessualità. Piansi per il sollievo, lo shock e la presa di coscienza. Ci sono voluti tre anni di terapie perché Heidi diventasse Andreas».

Andreas fa fatica a riconoscersi nella vita precedente: i suoi genitori, i fratelli lo ripudiano, non vorranno più vederlo. Trova una nuova famiglia grazie al matrimonio con una nuotatrice, Ute Krause, un’altra vittima del Regime che dopo gli steroidi per vent’anni ha avuto a che fare con l’anoressia. L’incontro su una panca in un corridoio del tribunale dove si celebra il processo agli aguzzini. Si incrociano gli sguardi e ognuno si riconosce in quello dell’altro, comprende che la sofferenza è la stessa. Cominciano a parlare, frequentarsi, innamorarsi e poi si sposano. Andreas oggi è un volontario che collabora a progetti di prevenzione nel doping. È un uomo felice: «Ute? Come se avessi vinto alla lotteria. I miei non hanno accettato la decisione di diventare uomo. Mia moglie e i miei amici mi hanno accettato per quello che sono. Ora ho la sensazione di essere a casa, anche perché è stato il doping a decidere che potevo essere solo uomo».

Anche Ute è felice, l’anoressia è un brutto ricordo. L’amore è più forte dell’inferno creato dal Potere e dalle pillole blu. Con Ute e Andreas, stavolta l’epilogo del film Le Vite degli Altri è un altro. È la pace che riporta l’inferno dietro un Muro che per fortuna non esiste più. —

twitter: @s_tamburini

© RIPRODUZIONE RISERVATA
 






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