La finestra sulla vita
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 38 di Vanity Fair in edicola fino al 22 settembre 2020
Nella foto in alto: UNA MUSA AL CINEMA – Irene Jacob, 54 anni, francese, diventata star con i film di Krzysztof Kieslowski, oggi recita in Guida romantica a posti perduti, nelle sale dal 24 settembre. Foto di Riccardo Ghilardi.
Mentre parla, Irène Jacob si passa continuamente una mano tra i capelli, e arriccia le labbra in decine di sorrisi: tutti diversi, tutti brillanti, tutti curiosamente sinceri. Fatica a contenersi. È animata da un’energia straordinaria, che esplode nelle parole e nei gesti più semplici: accavallare le gambe, ridistenderle, prendere fiato. È irrequieta, tesa, pronta a scattare.
In Guida romantica a posti perduti di Giorgia Farina, presentato alle Giornate degli autori di Venezia e al cinema dal 24 settembre con Lucky Red, interpreta la moglie di un alcolista. Ed è, dice, «una cosa che non viene raccontata spesso al cinema. O almeno, non viene mostrata per quella che è. Perché anche il mio personaggio, in un certo senso, ha una dipendenza». Nel film ci sono anche Jasmine Trinca e Clive Owen: «Ed è stato un piacere lavorare con loro; li ammiro moltissimo». Quello che ha cercato per questo ruolo, spiega, è un certo equilibrio: «Non puoi essere un’infermiera o una madre; devi rimanere te stessa e, allo stesso tempo, devi essere pronta a cambiare».
In che modo?
«Prima di tutto parlando. E oggi non parliamo più di questi problemi. Li nascondiamo. O evitiamo di occuparcene. Mentre mi stavo preparando, ho letto un libro sulla codipendenza: persone che amano altre persone e che devono capire, che devono realizzare, di non poterle aiutare. È questa la vera sfida: accettare i propri limiti».
E poi in questo film si parla anche di confini.
«Fisici e mentali. Si parte dall’Italia e si attraversa mezza Europa. E un racconto così, su strada, in movimento, è un racconto necessario per i tempi in cui viviamo».
Ricorda la prima volta che è venuta a Venezia?
«Diversi anni fa, oramai. Con un film di Michelangelo Antonioni, Al di là delle nuvole».
Che uomo era Antonioni?
«Ci incontrammo a Parigi. Era con Wim Wenders. Era molto generoso. E la storia che voleva raccontare era una storia estremamente personale, per lui. Ci teneva, e in quello che voleva era molto preciso».
Lei ha un rapporto particolare con l’Italia.
«Quando andavo a scuola, la mia insegnante preferita era italiana. Leggevamo Verga, Sciascia, Pirandello. E mi creda se le dico che mi sono letteralmente innamorata della letteratura italiana. Ho passato un mese, a Firenze, per studiare l’italiano».
E che cosa ha imparato?
«C’è qualcosa che mi attrae, qui. Ogni volta che torno in Italia mi sento bene. Spesso dimentico quanto sia straordinario e bello questo Paese. C’è una tradizione molto solida di cinema. Fellini, Pasolini, Visconti. La commedia all’italiana. Molti attori francesi hanno lavorato qui. C’è come una fratellanza tra il cinema italiano e quello francese».
Che cosa condividono?
«Tutto quello che vogliamo è raccontare storie. E ognuno di noi ha il suo modo per farlo. Come attrice, mi sento sempre privilegiata a fare parte di un film. Finché ci sarà amore per il cinema, finché ci sarà un contatto reale e concreto, un contatto personale, finché ci sarà voglia di scoprire, di imparare nuove cose, i film continueranno a esserci».
Lei perché ha scelto questo mestiere?
«Non è una cosa che ho scelto; è sempre stato ovvio: è sempre stato una parte di me. Ho cominciato a recitare quando andavo a scuola. Sono la più giovane di tre figli, e come più giovane, forse, ho avuto più libertà. Ma nessuno nella mia famiglia fa parte di questo mondo. Ho speso tutto il mio tempo libero recitando».
Partiamo dall’inizio.
«Quando mi sono trasferita a Parigi avevo solo 18 anni. Mi sono iscritta all’Accademia drammatica, e ho cominciato a vedere tantissimi film. Perché è importante sapere quello che succede, quello che viene fatto, ed è importante lasciare che il cinema e le storie entrino dentro di noi: nelle ossa e sotto pelle».
Che cosa significa recitare?
«Aprire finestre che prima erano chiuse; scoprire segreti, partecipare a un’avventura; condividere qualcosa con qualcuno che non conosciamo e che guarderà il nostro film. È una cosa estremamente personale. Perché è sempre diversa. È come la vita. Cambia con il tempo. Proprio come il mondo cambia in continuazione».
Anche questa, a modo suo, è una dipendenza.
«Quando non sono su un set, voglio esserci. E quando invece ci sono, condivido la mia energia con più persone: il regista, gli sceneggiatori, gli altri attori, i tecnici. Recitare dà la possibilità di esplorare qualcosa che prima non si conosceva. In questo mestiere c’è sempre qualcosa da condividere. Recitare è un esercizio fisico, che coinvolge le tue emozioni. Ma è pure dinamico. Ed è bellissimo lavorare con un regista, provare a mettersi nei suoi panni, capire quello che vuole raccontare».
C’è un’eco di libertà in quello che dice.
«Recitare significa superare confini, vivere mille vite in pochi secondi, dimenticarsi delle differenze, abbracciarle, diventare qualcos’altro, essere qualcun altro. Sei allo stesso tempo sul fondo e sulla superficie di una piscina. E vedi tutto in tanti modi differenti. Sei vivo».
GUIDA INTERNAZIONALE – Irène Jacob in Guida romantica a posti perduti di Giorgia Farina, presentato al Festival di Venezia, in cui recita accanto a Clive Owen e a Jasmine Trinca.